Pubblichiamo l’intervento di Mauro Cascio al Convegno su Israele e il Medio Oriente organizzato ieri a Palazzo del Vicariato, a Roma. All’evento, organizzato da Giovanna Canzano e coordinato da Maria Gavano, hanno partecipato autorevoli relatori per chiarificare il contesto storico e geo-politico della situazione, tra cui Fabio Verna, Bruno Poggi, Enea Franza, Antonio Saccà
Io ringrazio Giovanna Canzano per questo invito. Mi inserisco nel tema in modo non so quanto appropriato, perché io non ho competenze geopolitiche di alcun tipo e no so offrire interpretazioni particolarmente raffinate e strutturate di quanto stia avvenendo in medio-oriente. Amo Israele e la cultura ebraica, di cui mi sono anche occupato, ma questo non mi permette comunque di dare letture analitiche della situazione in atto.
È però capitato proprio in queste settimane un incontro con un gigante della cultura europea. Ho incontrato i suoi libri e mi onora della sua amicizia. Li ho incontrati in relazione ai miei studi e interessi filosofici, legati per lo più alla filosofia classica tedesca. Questa figura di primissimo piano è Joseph Cohen, oggi professore di filosofia contemporanea all’Università di Dublino. Un filosofo che si è formato con Gadamer e Derrida, professore invitato alla Sorbona di Parigi, ma anche all’Università di Stoccarda e a Poitiers.
Cohen si è occupato degli scritti giovanili di Hegel, le parti relative alla tradizione dell’ebraismo nei suoi rapporti con lo spirito del Cristianesimo, questioni che poi diventeranno centrali nelle riflessioni della Fenomenologia dello Spirito e soprattutto le lezioni di filosofia della religione che Hegel ha tenuto in quattro corsi a Berlino nei semestri estivi del 1821, del 1824, del 1827 e del 1831.
La questione qual è? La questione è che le culture, tutte, esprimono, “rappresentano”, la comprensione che un’epoca storica ha di sé. Il terreno è quello del sapere, e il sistema dei saperi matura nei secoli: il palcoscenico dello spirito è la storia. Cioè nel divenire della storia noi assistiamo ad uno svolgersi, a un maturare, a un prender coscienza di sé, ad una crescita della o delle civiltà. Quindi non esiste una tradizione ebraica da una parte e una tradizione cristiana dall’altra, ma tradizione ebraica e tradizione cristiana sono due momenti di un divenire che si è dato nella storia dell’occidente. E in questo divenire in cui risuona la lezione di Vico, di Benedetto Croce, ma anche di Augusto Vera e di Raffaele Mariano interpreti di Hegel, una tappa non annulla l’altra, e anzi una tappa nemmeno esisterebbe senza l’altra di cui è interamente costituita e di cui rappresenta un completamento. I momenti dello spirito conservano i momenti precedenti, li hanno in sé. Non è il loro passato, è il loro vissuto, la loro costituzione. Il cristianesimo non è il superamento della tradizione ebraica ma il suo inveramento. Non la ha nel suo passato, ma nel suo presente. L’ebraismo è attuale e vivo, nella sua funzione teoretica, non è un astratto universale superato da un nuovo messaggio e diventato qualcosa da buttare.
Joseph Cohen si occupa, da ebreo, di questo significato del cristianesimo. Un significare teoretico. Cioè cercare, nel divenire storico, quei contenuti di verità che tutte le tradizioni, tutte le varie conformazioni del Geist, dello Spirito dell’uomo, cercano di esprimere. E questo ha fatto Cohen in due opere fondamentali, Il sacrificio di Hegel e Lo spettro giudaico di Hegel, la prima del 2005, la seconda del 2007, con la prefazione di Gerard Bensussan, a sua volta considerato uno dei massimi studiosi del pensiero ebraico. Capire il ruolo dell’ebreo, nel divenire fenomenologico, almeno in Occidente, del significato.
Nella prima figurazione negli scritti giovanili di Hegel, l’ebreo è la coscienza giudicante. «Il popolo dalla dura cervice non è tanto un’indicazione che rinvia alla rigidità e all’ostinazione, quanto più propriamente all’inflessibilità e al rigore della Legge. Quello che conta alla riflessione è una Legge che rimane estrinseca alla realtà che vorrebbe disciplinare». Una Legge ineffettuale. In filosofia qualcosa è ineffettuale quanto non è garantito dall’evidenza e dalla concretezza, che non ha realtà. Una legalità formale a cui manca il contenuto. Si usa l’aggettivo farisaico, allora. I farisei sono stati tra i gruppi politico-religiosi più significativi della Giudea. E si attribuivano l’autorità mosaica nel loro interpretare l’Halakah, cioè la tradizione normativa, che include i 613 precetti, e le successive leggi talmudiche. Il primo tema è dunque quello della Giustizia.
C’è un’unica parola che supera questa figurazione, questa tappa dello spirito. Un unico termine che secondo Hegel è il concetto in cui tutto passa, tutto si rivela e tutto si dice. Ma questo termine, scrive Joseph Cohen trascina il divenire del significato nella sua stessa aporia. È un’aporia dell’altro, o per meglio dire, dall‘altro. «Ha a che fare con questo: l’altro, colui al quale confessiamo la nostra finitudine e davanti al quale confessiamo il nostro limite, non ha nessuna ragione da darci o da concederci, nessun resoconto da farci, niente da condividere con noi, delle sue ragioni. Così la persona che confessa il suo male e la sua finitudine è sempre inferiore; teme e trema. E questo perché si consegna interamente e assolutamente nelle mani dell’altro, cioè nelle mani segrete e inaccessibili dell’altro. Solo l’altro può decidere cosa accadrà alla confessione, può determinare la corrispondenza tra la confessione e la sua risoluzione, è padrone e può decretare fino a che punto si spingerà la separazione, l’ostilità, il risentimento. Solo l’altro può dare la vita o perpetuare la morte, può darci la salvezza o abbandonarci alla nostra rovina. E il nome di questo dono, se arriva, è perdono».
È un’esperienza di non reciprocità, dice Cohen, di non riconoscimento e di non comprensione quella segnata qui dal “silenzio” della coscienza giudicante di fronte alla confessione della coscienza agente. «È una certa esperienza di impossibilità, un certo arresto del movimento del significato che si gioca in questa scena tra la coscienza confessante e la “dura cervice” della coscienza giudicante. Ora, per tracciare la via d’uscita da questa esperienza dell’impossibile, Hegel si affida a un secondo riferimento biblico, questo cristiano o, per meglio dire, giudaico-cristiano, cioè un riferimento che segna e rileva la linea tracciata dal cristianesimo sull’ebraismo».
Paolo chiede ai discepoli di implorare la salvezza e il perdono “non alla presenza di Dio, ma sempre e ovunque, cioè soprattutto quando Dio sembra essere assente”. Senza vedere o sapere, senza sentire il perdono o le ragioni del perdono. Senza sapere da dove verrà il perdono o se verrà mai. In breve, Paolo fa notare quanto segue: alla presenza di Dio, alla presenza dell’Altro assoluto, siamo sempre già in assoluta solitudine. Nessuno può parlare di noi, parlare per noi, o anche solo parlare con noi; tutto accade come se, nel teatro della confessione, ci fossimo solo noi, solo la richiesta di prendere tutto su di sé.
Se abbiamo visto a grandi linee cosa avviene sul piano normativo, lo stesso sviluppo possiamo vederlo anche sul piano teoretico. L’ebraismo è la grande religione della trascendenza. Dio è l’assoluto al di là. La sua presenza è la shekinah nel Tempio di Re Salomone. Qualcosa di assolutamente intangibile e inarrivabile. Solo il Cohen Ha Gadol, una volta l’anno a Yom Kippur, può andare oltre la cortina del Sancta Sanctorum. Questa presenza dopo la distruzione del Tempio diventa una presenza di cui nutrirsi. Lo aveva anticipato l’albero della vita del Genesi, lo aveva anticipato la manna. Ora, nel cuore della tradizione ebraica, si sviluppa un approccio diverso, un rapporto diverso tra il particolare e l’universale di cui è parte. Io particolare non ho un assoluto assolutamente altro. Io particolare mi nutro dell’universale per diventare universale. Io sono Figlio che partecipo a un memoriale che non è ricordo di un fatto storico ma, metastoricamente, salvezza in atto.
Questi racconti, mitici, teologici, che cosa fanno? Espongono un significato. Ce lo spiega ancora Joseph Cohen quando scrive: «Il significato integra e interiorizza il movimento della sua comprensione, e quindi comprende sempre tutto ciò che arriva da altrove come qualcosa che già proviene dal suo Sé». Non esistono parenti poveri e parenti ricchi. Ma esiste l’infinita dignità della tradizione unica che si esprime nella storia. Non so vi ricordate il film I due Compari, con Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo. Quando un borghese piccolo piccolo per non deludere la figlia in collegio è costretto dalle circostanze a recitare la parte di un ricco industriale, presentandosi anche con un titolo cavalleresco, Commendatore addirittura. Ma l’amore, quello della figlia appunto per Enrico, figlio di un industriale vero, sarà più forte di un ogni differenza sociale. L’amore, la cultura, e l’amore per la cultura, fanno sì che contrapposioni e parzialità si risolvano, che l’unità dello Spirito sia sempre preservata da strappi e lacerazioni. La Filosofia deve tornare a dirci questo: che non si può pensare a pizzichi e bocconi, ma bisogna tornare ad abitare il presente con l’ambizione di capire e connettere l’intero sistema dei saperi. Anche se questo dovesse comportare il rischio di essere un po’ mitomani o spacconi. Come il Commendator Bellini. Solo che nei film l’happy end vince quasi sempre. Nella vita vai a sapere.