Nella tradizione culturale europea, la pazienza è catalogata sì come una virtù, ma di rango decisamente inferiore rispetto alle virtù cardinali di classica memoria. Normalmente, essa viene accostata a una di queste ultime: alla fortezza o coraggio. Come pure a due delle tre virtù teologali di ascendenza cristiana: alla speranza e, in subordine, alla carità. Dal punto di vista etimologico, la parola condivide lo stesso retroterra dell’italiano “passione”, indicando una condizione, di passività e di esposizione, che non dipende dalla volontà di colui che in essa si trova. Oggi, nel mondo dal ritmo frenetico in cui viviamo, appare come una virtù del tutto inattuale, tant’è che uno dei tratti più tipici della situazione contemporanea sembra costituito proprio dal suo esatto contrario: l’impazienza.
Un’accurata ricognizione critica dell’idea di pazienza si deve ad Andrea Tagliapietra (I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza, Donzelli, Roma 2022, pp. VI-191), il quale in tale idea vede l’espressione di quella «intratemporalità del corpo vivente, esposto e vulnerabile», che ha caratterizzato da sempre la rappresentazione pittorica degli animali e, in particolare, dei cani: momento in cui l’uomo «ha cercato di comprendersi mediante una convivenza vitale» che precede quell’«esperienza distintiva» che ha finito per fare di noi un genere del tutto separato entro la specie cui pure apparteniamo. Ecco perché, nelle pagine del presente libro, la riflessione filosofica procede di pari passo con l’analisi iconologica di alcuni dipinti della pittura europea raffiguranti il cane, alla luce della convinzione secondo cui la rappresentazione di quest’ultimo è stato un modo tradizionale per dar corpo e raffigurare «in emblema» la nozione del tempo. E, quando parla di tempo, l’autore non intende né quello cosmologico della fisica né quello ontologico dei filosofi, ma quello di cui la segreta misura è custodita, agostinianamente, nell’interiorità vivente della nostra anima.
La questione che, a questo punto, si pone è se sia possibile fare il ritratto di un cane, visto che, stando a quanto sostiene Georg Simmel, l’arte pittorica del ritratto è stata un modo di rendere puramente visibile il profilo umanistico dell’individualità di un soggetto. Provando a emendare il pregiudizio fortemente antropocentrico che permane in questa visione, Tagliapietra vede, invece, nel ritratto il momento in cui il soggetto, “temporalizzandosi”, si espone nella sua passività originaria, vale a dire «il contrario dell’intenzionalità, dell’attività rappresentativa, dell’oggettivazione, della libertà e della volontà». Il tal senso, il ritratto raffigura un’anima non antropocentricamente connotata, ma intesa come quella «nuda vita» e quell’«infinitamente differenziato» che contraddistingue tutto «ciò che è soggetto al tempo».
La nostra tradizione, ci offre due paradigmi del cane che corrispondono a due distinte icone della pazienza: il cane dell’Odissea, Argo, fedele compagno di Ulisse, e quello che accompagna il giovane Tobia, in viaggio dalla Mesopotamia fino alla Persia nord-occidentale, nell’omonimo libro biblico. Quanto alla prima icona, Argo e Ulisse simboleggiano due diverse versioni della pazienza: mentre quella del primo è una pazienza di tipo affettivo – il cuore dell’anziano cane, infatti, non regge quando, dopo vent’anni, riconosce il padrone sotto le mentite spoglie di un mendicante –, quella del secondo è, invece, una pazienza di tipo tattico, intesa come «il lato riflessivo del coraggio», ossia come la capacità di resistere e di mantenere la calma anche di fronte alle avversità più atroci del destino, oppure, nel caso del duello con un avversario, come un saper attendere e trattenere la forza, per poi esercitarla, colpendolo al momento opportuno. Nell’episodio del riconoscimento, abbiamo, dunque, da un lato, Argo che è «l’emblema animale della cura del mondo, della fedeltà di contro all’incuria che spesso affligge l’umana stirpe», dall’altro, Ulisse che alla pazienza del cane morente dedica una lacrima, forse la sua «più autentica e sincera». Quanto alla seconda icona della pazienza, relativa al viaggio intrapreso da Tobia, in compagnia di un cane e dell’arcangelo Raffaele in incognito, qui, al di là del motivo manifesto dato dal recupero di una somma di denaro per conto del padre del giovane, si tratta di un viaggio di tipo chiaramente iniziatico, visto che segna l’accesso del giovane stesso alla vita adulta. Ebbene, proprio la scena dei tre in cammino ha avuto una certa fortuna nella storia della pittura europea, soprattutto del Quattrocento e del Cinquecento, fino al punto da diventare il modello di un ex voto con cui i padri invocavano protezione per i figli che partivano per un viaggio d’affari all’estero. Tagliapietra, analizzando l’iconografia pittorica di questa scena, vede come in alcuni casi il cane – che non ha, come Argo, un nome, ma è una presenza silenziosa e invisibile che «sta semplicementeaccanto» – funga da vero e proprio «spirito-guida animale, che raddoppia sul piano dell’immanenza la protezione trascendente dell’angelo». Quella del cane è così un’azione di custodia condotta in segreto, proprio come quella dell’angelo, il quale rivela, infatti, la sua natura divina solo al termine della peripezia.
A questo punto, viene intrapreso un esame della pazienza, nel rapporto che intrattiene con la speranza, per come si dà nel messianismo ebraico e nell’escatologia cristiana. Se, per il primo, la pazienza contiene la speranza e ne custodisce il senso, per il secondo è, invece, la speranza a contenere la pazienza, rispecchiandone il senso proiettivamente. «L’Ebreo spera nella pazienza che vive, qui e ora, facendo ciò che è giusto perché è giusto, senza rappresentazione. Il cristiano, al contrario, pazienta nella speranza che immagina e che alimenta mediante il rapporto drammatico, mimetico e immedesimativo fra sé e la figura del Cristo». Nella prospettiva ebraica, la pazienza messianica rappresenta così un bilanciamento della speranza messianica, nel senso che, impedendo le irrequiete fughe in avanti di quest’ultima, se anche messa di fronte alle prove più dure, non cade mai in preda allo sconforto e alla disperazione. In tal senso, essa incarna una forza di resistenza tale che, solo dall’esterno, può apparire come un segno di pura passività e di remissiva rassegnazione. Il cristiano, invece, «enfatizza il ruolo della speranza nel tradurre la pazienza in forma di vita, dal momento che l’essenziale della storia e della temporalità, lo spettacolo della salvezza, ovvero la venuta del Messia nella persona di Gesù, si è già compiuto, sicché la speranza misura la realizzazione della promessa qui e ora, nella dimensione, inquieta e impaziente, di un mondo che si sa a termine».
Il libro si conclude con un’analisi di un quadro raffigurante un cane dipinto da Franz Marc, l’artista che, insieme con Kandinsky, diede vita al movimento espressionista «Il cavaliere azzurro». In esso, un cane assorto contempla il mondo intorno a lui, raffigurato nel segno dello sguardo muto dell’animale. Si chiede Tagliapietra: «Ma a cosa pensa, se pensa, il cane? […] Forse, semplicemente non pensa a delle cose». Forse, sta in fervido ascolto del silenzio della natura che lo circonda, dove l’esperienza del senso delle cose fa tutt’uno con la grazia che emana dalla postura assuefatta del suo corpo animale. Il cane di Marc può essere visto così come l’immagine di una pazienza sostanziata di un’«attenzione senza finalità né oggetto», come disposizione non antropocentrica di «chi si abbandona all’immanenza della pura durata», di chi intende «abitare il mondo avendone finalmente cura».
Foto Vasari, Allegoria della pazienza, CC0