«Per sognare non bisogna chiudere gli occhi, bisogna leggere», scrisse Michel Foucault. La questione è che bisogna leggere anche per rimanere con i piedi ben piantati per terra e non solo per sognare. Cioè per comprendere la stessa nostra comprensione. Ci aiuta in questo uno splendido testo di Antonio De Simone, Oltre Hermes (Mimesis). Già il titolo prefigura. Hermes è il messaggero degli dei. Platone, nel Cratilo, lo associa al dire, al discorso, cioè al Logos. Anche nelle narrazioni meno nobili del dio ha a che fare il dire anche quando Hermes è un ladro, o un ingannatore o un furbo commerciante e questo fa: utilizza, architettando una truffa con la forza del discorso, le parole. De Simone vuole farci addentrare nella comprensione e lo fa al solito modo suo, affascinandoci con una dotta narrazione, ricca di spunti bibliografici e vie di fuga, partendo da Dilthey e arrivando a Gadamer (e ad Heidegger).
Nel cammino di pensiero diltheyano in una prima fase, quella detta psicologica, le diverse attività spirituali dell’uomo vengono ricondotte a un’unità vivente (l’Erlebnis), qualcosa di ancora interno in cui la dinamica storica si focalizza e si concretizza. In una seconda fase, quella ermeneutica, questa riconduzione all’Erlebnis si ottimizza nell’idea di storicità della vita: la vita non si trova nel tempo, come un oggetto che si trova in un luogo, ma è essa stessa tempo. È tempo e manifesta il tempo. Solo la comprensione consente di accedere a questo intreccio; quindi l’ermeneutica, come metodo della comprensione in generale, diventa il metodo per cogliere la connessione tra tempo e vita.
Il mondo storico è un abisso di individualità e Dilthey ha sostanzialmente trasferito il concetto di storicità da un piano metafisico-idealistico a uno fenomenologico-concreto che possiamo definire vitalismo-ermeneutico, un “autentico pioniere” di questo “grande abisso”. L’uomo non è il soggetto conoscente kantiano in cui non scorre sangue e vita ma “l’uomo tutto quanto, volente, senziente e rappresentante”.
De Simone si sofferma in qualche pagina sul termine Erlebnis. Già in Goethe la forma verbale erleben stava a indicare qualcosa che abbiamo sperimentato direttamente, un sapere cioè mediato da un’esperienza vissuta. In tutto il XIX secolo si usa questo termine in estetica per comprendere l’opera di artisti e poeti in base alla vita. Nel campo delle scienze dello spirito, cioè nell’ambito dell’applicazione diltheyana che in qualche modo ricorda Husserl, i dati con cui abbiamo a che fare sono di tipo speciale: essi sono Erlebnisse caratterizzati cartesianamente (res cogitans) da riflessività e interiorità, sono unità significative che, rapportandosi con l’unità ultima della coscienza, come tali diventano anche “unità di senso”. «Due sono state […] le vie filosofiche attraverso le quali si è posto in evidenza il nesso tra Erlebnis e vita (Leben). Innanzitutto con Paul Natorp per il quale “la concretezza dell’Erlebnis originario, cioè la totalità della coscienza, costituisce una totalità indivisa che solo attraverso l’applicazione del metodo oggettivo della conoscenza si differenzia e si determina […]. In secondo luogo con Henri Bergson, per il quale il concetto di durée “esprime la continuità assoluta della vita psichica […]. Bergson concepisce la durata come organisation, cioè sul modello dell’essere vivente, nel quale ogni elemento è rappresentativo del tutto. Egli paragona l’intima compenetrazione di tutti gli elementi della coscienza “al modo in cui, nell’ascolto di una melodia, tutti i suoni si fondono”».
Poi, ovvio, ci sono le categorie. Che non sono a priori dell’attività conoscitiva e che Dilthey distingue in formali e reali, modi di apprendimento del mondo storico e al tempo stesso strutture fondamentali di questo mondo. Il termine Erlebnis, complicando quello di Leben, comporta necessariamente una riflessione preliminare sul tempo: la temporalità è la prima determinazione categoriale della vita. «La nave della nostra vita è portata da una corrente che di continuo la spinge innanzi, e il presente è sempre là dove noi viviamo, soffriamo, vogliamo, ricordiamo su queste onde, cioè dove abbiamo un’immediata esperienza nella pienezza della nostra realtà. […] E la “presenza” è l’appartenenza del nostro passato al nostro Erleben; ciò che così costituisce nel fluire del tempo l’unità dell’Erlebnis, in quanto ha un significato unitario nel corso della vita, è la più piccola unità che possiamo designare come Erlebnis».
«Ogni vissuto (Erlebnis) viene sempre appreso a partire da una connessione psichica già data, che coincide con la totalità della vita psichica», dice ancora Dilthey. La connessione psichica è articolata in tre sottoconnessioni: quella strutturale, quella acquisita e lo sviluppo. La connessione strutturale si compone della tradizionale partizione della psiche in sentimento, intelletto e volontà. La sua caratteristica è il finalismo, vale a dire la tendenza a soddisfare i propri istinti alla gioia e alla realizzazione del valore della vita individuale. La connessione acquisita è il dominio dell’inconscio, la sede delle abitudini irrifilesse, degli schemi di pensiero e di quanto importiamo dalla società. Lo sviluppo infine è il “distendersi temporale e storico della vita”, quanto presiede alla realizzazione della persona, qualcosa di mutevole e in qualche modo imprevedibile.
La “svolta ermeneutica” è quella dove si comincia a dare importanza alle biografie, per esempio (per inciso Dilthey è l’autore di Storia della giovinezza di Hegel), il terreno dove si intrecciano Erlebnis, espressione e comprensione, l’arte dell’esegesi delle opere d’arte e delle opere poetiche, dove il monumento è lo scritto, testimone di un’epoca storica, pieno di quotidiano, qualcosa che si offre come un documento alla nostra indagine e ne diviene centrale. L’introspezione non è più sufficiente, bisogna andare oltre, bisogna prendere un autore, contestualizzarlo, capirlo meglio di quanto egli abbia capito se stesso, definire un senso. La comprensione cioè si estende “dalla apprensione dei suoni infantili sino all’intelligenza di Amleto o della Ragion pura”. Nelle pietre, nel marmo, nelle note musicali, nei gesti, nelle parole e nella scrittura, come nei sistemi economici e nelle costituzioni “ci parla il medesimo spirito umano e ci chiede di essere interpretato”.
E sul terreno storico dell’ermeneutica, passando per Marcuse e Horkheimer, nella storia filosofica di De Simone troviamo anche Gadamer. Una delle tesi principali di Verità e metodo è che “ogni comprendere è un accadere, un evento storico a sua volta”, ma uno degli acquisti teoretici principali dell’ermeneutica filosofica gadameriana risiede proprio nell’aver riconosciuto e pensato la finitezza dell’esperienza umana come storicità. «La stessa esperienza ermeneutica, in quanto assume la consapevolezza dell’impossibilità di pensare un soggetto fuori e/o sradicato dalla storia, consiste appunto nel complesso fenomeno del comprendere, e lo stesso comprendere è persuasivamente connotato dall’esperienza della storicità. Ora, come sappiamo, Gadamer intende tale storicità del comprendere non solo come “apertura” verso tutto ciò che ci perviene come contenuto della trasmissione storica, ma che, proprio in quanto comprendere, cioè come un “accadere di verità”, rappresenta senz’altro un’inversione di tendenza e uno “scacco” nei procedimenti metodici tipici della soggettività moderna». Quello che conta è la “totalità di senso” che sfugge al positivismo ieri come oggi tanto in voga. «Chi volesse scrivere una storia della fisica o della matematica non potrebbe rinunciare a ricercare le connessioni che in una determinata epoca ci sono state con alcuni indirizzi o preferenze di ricerca e ricostruire sulla base di questi interessi lo sviluppo e l’applicazione di una metodica scientifica».
Noi ci fermiamo ad Heidegger (ma non si ferma il libro, che prosegue con una terza parte sul bello su cui occorrerà tornare). La fenomenologia dell’esserci è ermeneutica. «Quest’ultima è ermeneutica anche nel senso dell’elaborazione delle condizioni di possibilità di qualsiasi ricerca ontologica». Nell’ermeneutica dell’esserci, in quanto analitica dell’esistenza, “l’essere e la struttura dell’essere si trovano al di sopra di ogni ente e di ogni determinazione possibile di un ente” per cui, “posto l’essere come il trascendens puro e semplice”, ogni apertura dell’essere in quanto trascendens è conoscenza trascendentale. «Un tal comprendere implica l’universale possibilità dell’interpretazione, del cogliere i nessi, del trarre le conseguenze, […] possibilità che, appunto nel campo della comprensione dei testi, caratterizza chi se ne intende». Chi, “nello sforzo di comprendere un testo, una legge, ha compreso”, si è cioè “proiettato non solo nell’alterità di un contenuto, ma ha raggiunto anche una nuova comprensione di sé”. E siamo sempre intrappolati in questo circolo ermeneutico: io ho davanti a me una comprensione a cui accedo grazie ad una mia pre-comprensione. È un circolo vizioso che può diventare virtuoso se impariamo ad abitarlo, se cioè sappiamo “stare dentro nella maniera giusta”.
Nella foto Wassil Lepanto con Hans-Georg Gadamer in uno scatto di Leena Ruuskanen | CC BY 3.0