Il Parlamento italiano si sta occupando, pur tra dure contestazioni e un rinvio a settembre, dello Ius Scholae, ovvero della concessione della cittadinanza italiana ai minori stranieri, nati in Italia o arrivati nel nostro Paese prima del compimento dei dodici anni, che vi risiedano legalmente e che abbiano frequentato almeno un ciclo scolastico di cinque anni (scuola dell’obbligo) o un corso di formazione professionale triennale o quadriennale.
Si tratta di una proposta di legge che si aspettava da anni e che riconosce un diritto a migliaia di giovani stranieri, che si sono perfettamente integrati nel nostro sistema scolastico e nella nostra società, acquisendo conoscenze e competenze, titoli di studio e, soprattutto, il senso di appartenenza ad una comunità civile e democratica, grazie anche alle lungimiranti ed efficaci azioni di inclusività messe in atto, a tutti i livelli, dal nostro sistema scolastico ed educativo.
Lo Ius Scholae può essere, pertanto, un ottimo strumento di integrazione culturale, sociale, umana, in grado di prevenire il disagio dell’emarginazione e di controllare e contrastare i preoccupanti fenomeni di ribellione e di “radicalizzazione”, che si manifestano oggi, specie nelle periferie delle grandi città: vincolare la cittadinanza alla frequenza scolastica significa dare a questi giovani una “prospettiva di vita” (con diritti e doveri di cittadino) e, nel contempo, contribuire a rendere le loro famiglie più partecipi del percorso formativo dei propri figli.
Perché no, quindi, lo Ius Scholae? Sarebbe una legge perfettamente in linea con il Piano di azione della Commissione Europea sull’integrazione dei cittadini di paesi terzi del 2017 e con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, ma soprattutto un elemento di civiltà e di Progresso del nostro Paese.