La meraviglia del barbaro, in un noto aforisma di Hegel, è quella di quando sente che il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei due cateti. «Egli ritiene che potrebbe anche essere in un altro modo, ha paura specialmente dell’intelletto e resta nell’intuizione. La ragione senza intelletto è nulla, ma l’intelletto senza la ragione è comunque qualcosa». Da qui parte una documentata e ben strutturata riflessione di Federica Pitillo, pubblicata di recente (Istituto Italiano per gli Studi Storici, Società editrice Il Mulino) e intitolata La meraviglia del barbaro. In Hegel il Verstand è il responsabile della scissione tra soggetto e oggetto, la potenza immane del negativo che non mi consente di andare oltre le opposizioni che mi configurano solo un rigido determinarsi del reale che non è la realtà nel suo compiuto dispiegamento. «La sua monotona operazione di scindere tutto in concetti ed in cose esistenti fuori di questi, senza che alcun ristoro sopravvenga da parte di un’idea di ragione, senza fantasia, senza prospettive, in un tono che introna e annebbia i sensi, narcotizzante ed opprimente, con un effetto come se si camminasse in un campo di giusquiamo in fiore, ai cui stordenti profumi non v’è forza che possa resistere».
Il reale cogliere mi sarà infatti dato solo dalla ragione speculativa, che si chiama speculativa proprio per questo, perché è come se il soggetto si osservasse come oggetto in uno specchio, per capire che la distinzione non ha terreno. Uno sguardo dell’io su se stesso che ricorda il finale di Film di Beckett, quando un individuo senza nome e senza volto scappa da uno sguardo che gli corre dietro in ogni dove, fino a scoprire, in uno specchio, di essere lui l’occhio inseguitore. Eppure, ecco il senso di quella che appare come una concessione inaspettata, l’intelletto alla ragione mi ci accompagna, senza intelletto il conoscere richiederebbe un salto che non siamo in grado di fare. Nel movimento dialettico dell’Hegel della maturità il negativo sarà il motore che mi permette di raggiungere la sintesi che aiuta a superare, conservandole in sé, le opposizioni. Dove guardato e guardante, per tornare a Beckett, saranno superati dal guardare.
Federica Pitillo si immerge in questa problematica e ci restituisce tre lunghe indagini. La prima è una articolata, e documentata, ricostruzione della Reflexionsphilosophien negli anni di Jena, agli inizi dell’Ottocento, in un confronto con Kant e Jacobi soprattutto. «Quando in Fede e sapere, Hegel definisce l’immaginazione come la “bilaterale identità originaria” da cui sorgono soggettivo e oggettivo, intende il termine “bilaterale” nel senso di una omogeneità conoscitiva fra immaginazione, intelletto e ragione, che ne cancella i rispettivi confini e che implica l’abbandono di una prospettiva soggettivistica». Lo scontro tra intelletto e ragione “si consuma all’interno di un orizzonte comune”. «In questo orizzonte epistemologico avviene la tematizzazione delle diverse accezioni della riflessione. Hegel distingue, infatti, una “riflessione isolata”, che viene descritta come “la facoltà dell’essere e della limitazione”, da una “riflessione come ragione” o “strumento del filosofare”. Mentre la prima si ostina a produrre condizioni di scissione, alla seconda è ascritto il compito di aprire la strada al sapere speculativo mediante la negazione delle determinazioni finite assunte come assolute, vale a dire sciolte dal necessario riferimento allo sfondo unitario all’interno del quale soltanto hanno significato. La riflessione filosofica assume, dunque, la “funzione di ponte tra riflessione e ragione”, tra astrazione e speculazione». In tutto questo c’è anche l’intuizione che può essere interpretata come una “riflessione della riflessione” o meglio come una “riflessione in potenza”.
Nella seconda parte ci si sofferma sullo scetticismo. Nel 1802 Hegel lo definisce come “il primo gradino verso la filosofia, perché l’inizio della filosofia deve pur essere una maniera di elevarsi al di sopra della verità data dalla coscienza comune e di presentare una verità più alta”. Scrive Federica Pitillo: «Rispetto allo scetticismo moderno, incarnato da Schulze, che riduce il razionale a cosa posta oltre il finito, quello antico possiede, secondo Hegel, un deciso valore speculativo, nella misura in cui espone la precarietà conoscitiva dell’intelletto, corrodendone i pregiudizi e mostrandone il cammino di autotrascendimento». Lo scetticismo, questa è la questione, non si può ridurre al “mero dubitare di qualsiasi verità”, in lui opera piuttosto la nientificazione dell’ambito conoscitivo dell’intelletto. «Di qui l’affinità con il compito assegnato alla logica e alla critica filosofica: “questo scetticismo non si costituisce a parte specifica di sistema, ma è esso stesso il lato negativo della conoscenza dell’Assoluto, e presuppone immediatamente la ragione come lato positivo”. L’analisi dei tropi di Enesidemo è uno dei momenti più interessanti e riusciti del volume.
Un giusto rilievo viene dato alla critica hegeliana al Gemeinsinn o sensus communis. «Se volgiamo lo sguardo all’evoluzione di questo concetto nella storia del pensiero occidentale, possiamo individuare almeno tre accezioni di questa nozione, corrispondenti a tre diverse tradizioni filosofiche: a) in un primo significato, il Gemeinsinn evoca il concetto di koiné aisthetis, ovvero di quel senso comune che coordina e porta a unità le singole percezioni provenienti dagli altri sensi. Ripresa anche dalla Scolastica, questa accezione di senso comune possiede una chiara matrice psicologico-conoscitiva. b) Il secondo significato di Gemeinsinn, che si richiama alla tradizione culturale tedesca, indica una primaria capacità intellettiva comune agli esseri umani […], che consente un accesso immediato al reale senza il ricorso a procedimenti discorsivo-inferenziali; per tale ragione si connette all’uomo di buon senso che, se tale, deve essere dotato di un sano intellettetto umano […]. c) Vi è, infine, un significato etico-politico del Gemeinsinn come Gemeingeist, public spirit, esprit public, che si richiama alla tradizione latina (Cicerone) e che, mediato da Giambattista Vico, viene ripreso dai moralisti inglesi (Shaftesbury, Hutcheson, Hume) e dalla Scuola scozzese del common sense (Reid, Beattie, Oswald)».
Nella terza parte c’è l’Hegel che ha ormai chiaro “che il sapere astraente dell’intelletto non può essere corretto da una istanza esterna, bensì deve trovare dentro di sé il senso del proprio superamento”. Così “l’incedere dell’intelletto”, dopo il cruciale passaggio in Logica e Metafisica, viene trasferito all’interno del cammino della Fenomenologia dello Spirito. Ci resta alla fine il sapore buono di una saggistica che sa ancora proporre e produrre lavori di qualità e la gioia nel constatare la vivacità che continua ad abitare gli studi hegeliani.
L’intelletto umano liberato dai lacci dell’ignoranza, affresco di Luca Giordano (1685) nella Biblioteca Riccardiana a Firenze | Foto Sailko CC BY 3.0