Emanuele Coccia, filosofo italiano, professore presso l’École des hautes études en sciences sociales‘ di Parigi, dopo aver prospettato una metafisica della vita nel segno dell’idea di ‘mescolanza’ (La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, 2018), proseguendo in questa direzione, nel libro Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita (tr. it. di S. Mambrini, Einaudi, Torino 2022, pp. 208), uscito a due anni di distanza dall’edizione originale francese, passa a interrogarsi sul fatto che le varie e molteplici forme che assume questa stessa vita altro non sono che le figurazioni di un’unica e medesima sostanza, così che, indipendentemente dalla specie cui noi apparteniamo, tutti possiamo dirci carne di una stessa carne.
Coccia suggerisce di pensare la molteplicità di forme attraverso cui si esplica il vivente in termini di metamorfosi e non di evoluzione. Nel senso che, mentre la seconda, dispiegandosi verticalmente, non riconosce alle forme che si succedono lo stesso peso, importanza e valore, la prima, dispiegandosi orizzontalmente, funge, invece, da principio di equivalenza fra tutte le nature: ogni forma, ogni natura viene da un’altra ed è equivalente ad essa; ognuna ha ciò che le altre condividono, solo in misura diversa; tutte incarnano la vita che è stata loro trasmessa, al tempo stesso, modificandola. «Chiamiamo metamorfosi questa duplice evidenza: ogni essere vivente è in sé una pluralità di forme – contemporaneamente presenti e successive –, ma ciascuna di esse non esiste in maniera realmente autonoma, separata, in quanto si determina in una continuità immediata con un’infinità di altre forme che la precedono e la seguono». È come se ci trovassimo davanti a dei veri e propri ‘giochi di vita’ (dove l’espressione va presa nello stesso senso in cui si parla di ‘giochi linguistici’), nei quali è racchiuso il significato profondo della grande intuizione darwiniana, secondo cui tutte le specie viventi sono legate, fra loro, da un rapporto di tipo genealogico.
Concependo in questo modo la metamorfosi, ecco che nulla c’è di più universale della nascita, visto che essa è la forma trascendentale delle nostre esperienze, ossia ciò che noi condividiamo con tutti gli altri esseri del pianeta: «la condizione di possibilità e la forma della continuità di tutti i viventi, di tutte le specie, ma anche della vita e del suo ambiente», il tramite attraverso cui individuo, specie e pianeta comunicano fra loro e si metamorfizzano gli uni con gli altri. Nascita è così sinonimo di natura e natura è il modo d’essere di tutto ciò che esiste grazie e attraverso la nascita. «Nascere, per ogni essere vivente, è fare l’esperienza di essere un pezzo del corpo infinito del mondo che inventa un altro modo di dire “io”». Come a dire che non è soltanto il vivente a nascere, ma che, alla comparsa di ogni nuovo individuo, è anche il mondo stesso che, attraverso di lui, nasce ogni volta diversamente. Il che è indice di un rapporto di gemellarità che vige fra tutto il vivente. «Considerare tutti gli esseri uniti nella e attraverso la nascita – pensarli come esseri naturali – significa percepirli in quanto gemelli cosmici». Gemellarità che «è molto più intensa del mero fatto di avere in comune gli stessi genitori. […] Tutti i viventi hanno un’unica e medesima madre, Gaia, che condividono con milioni di altri esseri».
Tornando al modo di concepire la metamorfosi, noi siamo soliti pensarla in base a due modelli, la conversione e la rivoluzione, le quali sono, però, quanto di più distante c’è da essa. Mentre, nell’una e nell’altra, la forza che trasforma – noi stessi o il mondo – è data da un atto di volontà che emana dal soggetto, la metamorfosi, provvedendo a costruire una soglia in cui ogni frontiera e ogni identità sono temporaneamente sospese, è animata, invece, da una forza che opera in completa autonomia, perché è molto più antica di ciò che essa stessa plasma.
Ora, maestri in fatto di metamorfosi sono gli insetti, alcuni dei quali, nel corso di una singola vita individuale, hanno la capacità addirittura di dar forma a corpi diversi, producendo così, a partire da se stessi, la medesima diversità morfologica che esiste fra due specie distinte. «Dal punto di vista dell’insetto, tutto è forma e ogni cambiamento di dimensioni è produzione di una nuova forma». Per lui, «ogni crescita è metamorfosi». Nel senso che la forma non è quella che a noi, ad esempio, viene data, una volta per tutte, con la nascita, ma quella che l’insetto costruisce e disfà in ogni istante della sua esistenza. Per questo, a partire dal XVI secolo, gli insetti diventano il termine di osservazione privilegiato per comprendere la natura del vivente, nonché la sua relazione con il cambiamento morfologico. Coccia riferisce la tesi di un biologo contemporaneo, Donald I. Williamson, il quale, proprio dallo studio degli insetti, è giunto alla conclusione secondo cui, per molte specie animali, l’ibridazione svolge un ruolo fondamentale non solo nelle tappe primitive della vita, ma anche nelle fasi evolutive successive, per cui molti esseri viventi possono essere definiti come delle vere e proprie ‘chimere’.
Si giunge a definire così la metamorfosi come quella proprietà dei corpi che non si separano mai dalla loro infanzia, nel senso che la vita non abbandona mai del tutto lo stato embrionale, il quale si dà, in tal modo, come una matrice evolutiva permanente per il futuro. Proprio nell’insetto, l’uovo non precede la nascita, ma la segue, prolungandola continuamente in avanti. Tesi, questa, formulata per primo da William Harvey, il quale, in un testo del 1651, definiva come primordium vegetale le uova degli animali e i semi delle piante, visti come un qualcosa capace di trasformarsi in forma di vita vegetativa sotto l’azione di un principio interno. A partire da questa visione del vivente, giovinezza e vecchiaia non ci appaiono più come due momenti evolutivi disposti, uno rispetto all’altro, in una sequenza lineare progressiva, ma come due fasi che si alternano vicendevolmente lungo un unico processo di sviluppo. Solo un corpo che non è più capace di vivere la propria infanzia, ma trasferisce questa esperienza in un altro corpo riproducendosi, smette di metamorfizzarsi: «la giovinezza non è un’età, ma una forza di ringiovanimento». La tecnica stessa è, in questa luce, «una procedura di ringiovanimento», nel senso che costruire oggetti tecnici è, per l’uomo, un modo di sottrarre la giovinezza al mondo e di impiantarla nella nostra vita: un modo per «produrre un’infanzia condivisa. Ciò che in noi ringiovanisce è sempre la vita, non la forma che la veicola nel nostro corpo. Il ringiovanimento è sempre un fatto impersonale».
Coccia trova una conferma della sua tesi, ossia del fatto che c’è una sola vita, comune a tutti gli esseri viventi, anche nel fenomeno della nutrizione, visto come una forma di circolazione della vita altrui nell’atto in cui si travasa nel nostro corpo. «Mangiare significa fondere due vite in una sola». Da questo punto di vista, la morte è soltanto una soglia: un momento del processo di nutrizione da parte di altri individui. Mangiando costituiamo così «una comunità universale: la comunità delle comunità, al di là delle differenze di natura, di habitat e di forma di vita». In tal senso, la nutrizione non un qualcosa che denota una mancanza che va colmata, ma «rappresenta la necessità di incontrare l’altro, di diventare altro passando attraverso la vita di un’altra specie». Ne discende che essa è «l’atto politico più radicale che ci sia»: atto dal quale ci viene l’insegnamento secondo cui nessun vivente è mai completamente a casa propria, ma che noi non facciamo altro che traslocare, cambiare casa in continuazione, diventando noi stessi la casa di alti individui e di altre specie.
Ma, se nessun vivente è mai completamente a casa propria, ciò vuol dire che è la vita stessa che migra incessantemente, che non c’è nulla di fisso e stabile sulla faccia della Terra, che non esiste nessuna terraferma. Siamo così al concetto di «deriva dei continenti» che, teorizzato da Alfred Wegener, ha rivoluzionato profondamente la geologia: nel segno di esso, la nozione di essere-al-mondo diventa una condizione di permanente migrazione. E proprio tutto ciò significa, letteralmente, essere su un “pianeta”, termine che deriva dal greco planaomai, il quale, non a caso, significa «errare, smarrirsi». Ne discende che ogni corpo, anche il nostro, non è mai pura estensione, ma ha una natura “veicolare”, ossia è paragonabile a un mezzo di trasporto: corrisponde alla condizione di un vero e proprio “viaggio in corso”.
Volendo trarre le considerazioni conclusive dalla lettura di questo bel saggio di Coccia, possiamo dire allora che, per abbandonare il regime di monocultura etica, ecologica e biologica, oggi dominante, dobbiamo lasciarci alle spalle ogni forma di sapere puramente umano, perché il più grande insegnamento che ci viene dalla vita è che essa è interspecifica. La relazione che ogni specie intrattiene con le altre è la condizione che induce alla metamorfosi delle specie che vi sono coinvolte, relazione che, in quanto fornita di un profilo cosmico, è ciò che rende possibile, ogni volta nuovamente, la genesi del mondo. Un ambiente in senso naturale non esiste, perché esso è sempre lo spazio progettato e costruito da alcune specie viventi per specie diverse da quelle che lo occupano. Pensiamo, ad esempio, al fenomeno della respirazione: il rapporto più immediato che ci lega al mondo e allo spazio. Essa è, primariamente, il risultato del metabolismo delle piante ed è, solo secondariamente, ciò che rende il mondo vivibile per noi.
Foto La morte di Atteone di Tiziano | CC0