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L’unica obiezione valida a  Rousseau in 310 anni

Riccardo Bruno di Riccardo Bruno
25 Giugno 2022
in Cultura
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Di tutte le obiezioni poste al pensiero di Rousseau, il 28 giugno sono trecento dieci anni esatti dalla nascita, l’unica fondata resta quella del bigotto reazionario De Maistre. Il profeta della Restaurazione ironizza sulla squisitezza del Rousseau nel suo Contratto sociale contenuta nella massima rimbombante, per cui l’uomo “nato libero”, si troverebbe “dappertutto in catene”. E dove mai sarebbe la dimostrazione di un simile assioma? De Maistre che del razionalismo conosce tutti i trucchi, addenta la presa e non la molla.  “In tutti i tempi e in tutti i luoghi, sino alla fondazione del Cristianesimo, anzi sino a che questa Religione non fu penetrata sufficientemente nei cuori, la schiavitù è sempre stata considerata come un ordigno necessario nel governo e nello stato politico delle nazioni, nelle repubbliche come nelle monarchie, senza che mai cadesse in mente ad un filosofo di condannare la schiavitù, né ad un legislatore di combatterla con leggi fondamentali o di circostanze”.

Così nacque la leggenda che Rousseau fosse matto, perché qualsiasi persona di buon senso che ha sufficientemente studiato la sua natura, sapeva che l’uomo in generale, abbandonato a sé stesso, era troppo malvagio per poter essere libero. E subito De Maistre squadernava cifre. “Il numero degli uomini liberi nell’antichità era di molto inferiore a quello degli schiavi. Atene aveva 40.000 schiavi e 20.000 cittadini. A Roma, che contava verso la fine della Repubblica circa 1.200.000 abitanti, vi erano appena 2.000 proprietari”. Insomma che nessuno ignorasse, come l’intero universo fino al Cristianesimo, fosse “sempre stato coperto di schiavi” e soprattutto che i sapienti si sono sempre ben guardati dal biasimare tale usanza”. Questo assunto di De Maistre contro Rousseau, è inconfutabile, anche se, per la verità, ai duemila proprietari romani in Repubblica non corrispondevano un milione e cento ottantamila schiavi, ma plebei, liberti, aristocratici nullatenenti, il giovane Silla ad esempio, i ricchissimi proprietari italici, Mario, e poi la nuova categoria dei militari su cui si spaccò la Repubblica. Insomma, gli ammiratori di De Maistre, perdonino, ma la sua ricostruzione storica è piuttosto difettosa. Il quid dell’argomentazione invece è saldo. Basta leggersi Fenimore Cooper per capire che è ridicola la tesi del buon selvaggio. I selvaggi sono più crudeli e spietati dei civilizzati. Rousseau aveva preso un clamoroso abbaglio, tanto è vero che tutta la letteratura codina e reazionaria, da Taine a Cochin, avrebbe sempre infierito sull’urone di Rousseau che gli avrebbe tolto parrucca e scalpo mai l’avesse incontrato nella foresta. Poi è arrivato Tocqueville che per evitare contenziosi, negò persino la questione all’origine. Nella sua Democrazia in America i selvaggi sono sparute minoranze, mere ombre. Tutta la tensione sociale riguarda i neri, gli schiavi appunto.

Bisogna leggere Rousseau con gli occhi dei suoi avversari, per lo meno quelli che, come De Maistre lo hanno meditato a fondo. È vero, l’idea della libertà posta a fondamento della natura umana è solo un principio astratto che Rousseau vagheggia senza fondamento. Guardate il bambino in fasce, il ginevrino vuole subito toglierle, ed ecco l’Emile, una follia appunto. Altrimenti la libertà è semplice utopia, come la democrazia del resto. Lo stesso Rousseau, che conosceva la storia romana un po’ meglio di De Maistre, ricorda che la Repubblica fu democratica solo al momento della cacciata dei Tarquini e per pochi mesi. “La democrazia è cibo per dei, non per uomini”. Rousseau è il primo critico di se stesso e ne Il Contratto sociale, una formula di governo che in tempi di assolutismo gli costò il macero del libro, la cattura o l’esilio, confuta l’assolutismo.  Eppure, “il sovrano plurale” non coincide con la maggioranza dei cittadini. Rousseau paradossalmente la pensa come De Maistre a proposito del governo delle masse, ed i giacobini che conoscevano Rousseau, lo stesso. La “volontà generale” non è quella numerica della nazione, ma la sua aspirazione più alta. La “volontà generale” coinciderà con il giacobinismo per l’appunto e sempre bisognava tenere sotto controllo il giacobinismo.

Fu il grande torto di Rousseau puntare alle forme più alte del pensiero, come la purezza della libertà e pretendere poi strumenti per i quali queste forme non si disattendessero rivelandosi vane. Magico, poetico e con un temperamento musicale, completamente estraneo alla scienza, non è “scientifico” il suo pensiero, Rousseau nemmeno riusciva ad immaginare quanto agli uomini piacesse sguazzare nel fango e si sentissero rassicurati dalle catene in cui avevano vissuto tanto a lungo. Però nel suo parco alle Charmettes, ne ebbe almeno il sospetto.

Foto CCO

Tags: De MaistreRousseau
Riccardo Bruno

Riccardo Bruno

Riccardo Bruno si è laureato in Storia della Filosofia presso l'Università di Roma La Sapienza nel 1988. Dal 1987 al 1989 collabora all'Ufficio esteri del PRI diretto dall'onorevole Vittorio Olcese. Dal 1994 è capo ufficio stampa del PRI, dal 1995 giornalista professionista iscritto alla stampa parlamentare. Nel 1999 è capo redattore de La Voce Repubblicana. È stato poi editorialista per il Foglio di Giuliano Ferrara e l'Indipendente di Vittorio Feltri. Dal 2019 è prima vice direttore de La Voce Repubblicana e poi direttore politico

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