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Per una filosofia del mare

User Avatar di Giuseppe D'Acunto
19 Aprile 2023
in Cultura
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Il libro di Roberto Casati, studioso di scienze cognitive, che qui prendiamo in considerazione (Oceano. Una navigazione filosofica, Einaudi, Torino 2022, pp. 216), comincia con la seguente affermazione: «Dobbiamo dirigere al mare uno sguardo nuovo; il nostro è troppo superficiale […]. Potremmo iniziare a guardarci meglio intorno, cosa che finora non sembriamo aver fatto abbastanza, e da qui iniziare a ripensare il mare. Ripensare, proporre una nuova filosofia del mare. Capire in che misura è il nostro ambiente, in che misura ha fatto di noi quello che siamo. Il messaggio di questo libro è che serve una filosofia del mare». Di fatto, il mare è consustanziale alla filosofia, fin dai suoi inizi storici lungo le coste mediterranee delle colonie greche dell’Asia Minore. E se la filosofia, per come si è consolidata e la conosciamo, è ciò che nasce sempre da un confronto esigente con un qualcosa con cui noi, pur non comprendendolo, dobbiamo interagire, ebbene, proprio il mare rappresenta il termine di riferimento perfetto per un tale confronto.

La percezione del mare suona, infatti, per noi, come una vera e propria sfida. Noi che, stando al regime delle certezze “terrestri”, ci votiamo sempre all’affannosa ricerca di forme stabili e definite e tendiamo a ricondurre tutto al già noto, dobbiamo invece accettare fino in fondo questa sfida, senza provare mai a neutralizzarla. Sì, perché, di fronte al mare, siamo nel dominio di una diversa ontologia, fatta di «quasi-oggetti: le onde». Le quali hanno certamente forma, luogo e dimensione, ma non sono, propriamente parlando, cose materiali. Il mare resta dunque, per noi, un altrove radicale ed è proprio a partire da questa sua radicale alterità che l’autore ci invita ad avvicinarlo, ripensandolo da una prospettiva del tutto inedita: da quella in cui la conoscenza non è un momento speculativo distinto dall’azione, ma è una prestazione che si alimenta produttivamente di essa. «Dobbiamo accettare che [il mare] ci trasformi – tale sarà la condizione per avvicinarlo».

E un segno della sua radicale alterità è dato anche dal fatto che esso non finisce mai di esercitare su di noi un vertiginoso richiamo che ci attrae in direzione di luoghi che non conosciamo ancora. «Sulla spiaggia davanti al mare aperto c’è chi incontra un limite e si ferma, e chi invece scorge una possibilità e si imbarca». Proprio come nel caso dell’Ulisse dantesco, il quale non può fare a meno di salpare, perché, non potendo mai placare la sua sete di conoscenza, è sempre spinto dal desiderio di gettarsi in una nuova avventura e di andare a vedere con i propri occhi. In Ulisse, «la conoscenza si trasforma in azione, e […] l’azione alimenta la conoscenza». In più, il fatto che il mare ci è sostanzialmente estraneo e profondamente sconosciuto, se non dal lato della sua estrema superficie, ci porta, in qualche modo, ad addomesticarlo, attribuendogli un profilo “personale” e un’intenzionalità propria, come quando diciamo, ad esempio, che esso è “calmo” e “fermo” oppure che è “mosso” e “agitato”. E mentre «ogni singola montagna sembra avere il suo carattere», il mare viene pensato, invece, come un unico grande essere, dietro le cui differenze locali «trapela un’unica psicologia». Non solo, ma esso è un qualcosa che, in virtù della sua estensione indifferenziata, è contenuto e contenitore ad un tempo, per cui noi potremmo anche arrivare a pensarlo come una pura entità geografica, se non fosse che, talvolta, esso stesso ci fa ricordare la forza devastante della sua materia. Fa riflettere, inoltre, come le cartine ci rappresentino diversamente la terra e il mare. Cosa che ci conferma il fatto che quest’ultimo, anche geograficamente, è un mondo a parte. Mentre un punto sulla terraferma corrisponde sempre a un che di fisso, la zona della carta che ci rappresenta un tratto di mare indica, genericamente, solo la presenza mai stabile e sempre in divenire dell’acqua. E, se ci vengono fornite delle informazioni, esse riguardano soltanto la profondità del mare stesso rispetto al punto fermo della terra che sta sotto.

Insistendo intorno al tema dell’“inappropriabilità” del mare, Casati afferma che esso, in quanto “luogo/non-luogo”, è «doppiamente inapprendibile». È impossibile, infatti, «imparare una volta per tutte la nostra strada nel mare semplicemente andandoci, perché esso non offre punti di riferimento alla mente, non appigli all’apprendimento». E neanche possiamo chiedere ad altri di mostrarci questa strada, perché là fuori non c’è nessuno che ci possa aiutare e da cui imparare alcunché. Il mare è, insomma, «un ambiente non cooperativo. Nasconde la sua geografia». Per cui, davanti ad esso, è ogni volta come la prima volta. «È una cosa tra noi e lui: siamo soli». In tal senso, il nostro sistema di orientamento in mare non funziona affatto se lo calibriamo su una ecologia di tipo terrestre. E questo perché, in mare, riferimenti visivi semplicemente non ci sono. O, se ci sono, dove la percezione non basta, ecco che noi chiamiamo in soccorso l’immaginazione.

Passando alla nave, definita da Foucault come «l’eterotopia per eccellenza», Casati richiama l’attenzione su una grande lezione, addirittura “politica”, che può venirci dall’uso di essa. La navigazione ci insegna, infatti, due cose che sono pochissimo valorizzate nella società contemporanea: il riuso e la ridondanza. Da un lato, a non circondarci di oggetti di consumo effimeri, non strettamente necessari e non riparabili; dall’altro, a promuovere beni e servizi non riducibili a un’economia di scala, ossia a un modello in cui ognuno sa fare una sola cosa, con strumenti standardizzati e in completo isolamento dai propri simili. «Un ritorno alla ridondanza e al riuso […] ci avvicinerebbe tra l’altro alla nostra matrice biologica; perché la biologia è estremamente ridondante e plastica».

Visto il grande uso che se ne fa nella navigazione, non poteva mancare naturalmente anche un richiamo ai nodi marinareschi, catalogati nel numero di quasi quattromila. Già la questione di che cosa sia un nodo, solleva una serie di domande squisitamente filosofiche. È un oggetto a sé o è la proprietà di un oggetto? Si può dire che esso esiste in quanto tale oppure è solamente un cavo annodato, secondo una configurazione particolare? «Le regole per annodare e quando farlo in barca sono il riflesso di un’intera cultura». In navigazione, il nodo è un’entità altamente dinamica: «nasce per conferire stabilità ma deve scomparire, letteralmente, quando non è più utile, per permettere il riuso di una cima». In tal senso, deve avere la proprietà di essere stabile, ma, al tempo stesso, anche facilmente solubile. In poche parole, effimero in quanto indispensabile e indispensabile proprio in quanto effimero.

Il libro termina con un riferimento alla nostra più stretta attualità, ossia alla storia di uomini e donne che, separandosi dalle loro famiglie e investendo le loro ultime risorse, attraversano un doppio deserto, prima di sabbia e poi d’acqua, per cercare un lavoro e per dare un futuro ai loro figli. «Perché è vero che ci possono essere divergenze politiche sulle conseguenze della crisi dei migranti. […] Ma quali che siano le conseguenze politiche, quali che siano le cause umanitarie, resta il fatto che ci sono persone, in questo stesso momento, che sono in difficoltà nel mare. E bisogna semplicemente soccorrerle. Non è politica, non è sociologia, non è ideologia. È il mare stesso a chiedercelo». Di questo passo, Casati arriva fino a prospettare una serie di soluzioni “ultrapolitiche” per la crisi ambientale odierna che riguarda il mare. Una è, ad esempio, quella di riconoscere una personalità giuridica all’oceano. Oppure di considerarci, quando navighiamo e per tutto il tempo che lo facciamo, come dei cittadini adottivi del mare da cui tutti proveniamo, così che, a partire da qui, ci sia possibile costruire un’idea di cittadinanza più vasta e capace di includere in sé anche la terra. Infine, di fondare il «sindacato del plancton», per promuovere il lavoro instancabile svolto dalla moltitudine di individui e di specie che lo compongono. «Il plancton è il migrante per eccellenza, apolide, difficile da incasellare. Se oggi il lavoro richiede sempre più mobilità […] e sembra voler fare di tutti noi dei migranti senza diritti, l’immaginazione giuridica può creare strumenti che difendano tutti i lavoratori, sulla terra come sotto la superficie dell’oceano; e se quello che vale per noi può già da oggi applicarsi al plancton, quanto mettiamo in campo per il plancton potrà un giorno proteggere noi».

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Giuseppe D'Acunto

Giuseppe D’Acunto: ha insegnato presso le Facoltà di Filosofia de «La Sapienza» e dell’Università Europea di Roma. È direttore editoriale della rivista di filosofia on-line «Consecutio temporum», condirettore della rivista di filosofia «Azioni Parallele», nonché membro del Comitato Direttivo del «Centro per la Filosofia Italiana»

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