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Sui diversi usi del passato

di Giuseppe D'Acunto
1 Ottobre 2024
in Cultura
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Il libro di Mauro Bonazzi dal titolo Passato (il Mulino, Bologna 2023, pp. 116) muove dal chiedersi che cosa il passato significhi per noi, oggi che viviamo in un regime dominato da una «focalizzazione sul presente» e da un’«accelerazione» che «non fa che produrre alienazione» e dove il futuro incombe su di noi come un’ombra, sempre più inquietante e minacciosa. Il punto è che, se il mondo in cui viviamo sottostà al «tempo del presentismo», la conseguenza è che è proprio a partire da esso che noi giudichiamo il passato, così che ciò che di quest’ultimo non si accorda con il presente viene stigmatizzato. Qui, ad essere messo in discussione non è il passato genericamente inteso, ma un passato ben preciso: quello della tradizione europea occidentale, celebrata, negli ultimi due secoli, in particolare, come il culmine della civiltà umana. Dei nostri avi, di cui eravamo tanto orgogliosi, abbiamo scoperto, infatti, che erano schiavisti, razzisti, xenofobi, sessisti. Per cui, disillusi circa il fatto che il passato non è come ce lo raccontavano, prendiamo le distanze da essi, perché non farlo significherebbe condividere nascostamente le loro stesse idee aberranti. Ora, molto facile, in questa circostanza, è di cadere vittime di quello che Bonazzi chiama l’«ingenuità dell’altrove», ossia di andarsi a cercare i modelli di cui il nostro tempo ha bisogno in altre civiltà, ritenute esenti da tutti i vizi e difetti che corrompono la nostra. Tutto questo, però, presenta anche i suoi lati positivi, perché la nostra messa in discussione del passato ci permette di inquadrarlo a partire da altre prospettive, scoprendo aspetti di esso che erano rimasti nascosti. «In altre parole, ci costringe a riconsiderare davvero il nostro passato, liberandolo da incrostazioni, pregiudizi, luoghi comuni».

Molto forte è poi la tendenza a celebrare nel passato quella che è solo una versione mistificata, pregiudiziale e unilaterale di esso. Per esempio, quando l’antichità greco-romana viene vista come un “miracolo”, ossia come completamente isolata rispetto alle altre civiltà che hanno popolato il Mediterraneo. Concezione, quest’ultima, che è servita a legittimare l’ideologia imperialista e colonialista dell’età moderna. Altrettanto, proviamo a pensare se, per caso, il nostro ideale di bellezza – incarnato esemplarmente dai Greci – non subisca uno scossone, qualora prendiamo atto del fatto che le statue e persino i templi antichi come il Partenone erano colorati.

Ma, in rapporto all’atteggiamento tenuto nei confronti dell’antichità, c’è stata anche la furia iconoclasta di chi ha provato a estirparne ogni traccia, perché espressione di una civiltà che andava cancellata. E come un tempo fecero i cristiani in rapporto all’“empio” mondo greco-romano, così, prima hanno fatto i nazisti con la memoria del popolo ebraico, e poi, al giorno d’oggi, i talebani, quando abbattono le statue di Buddha in Afghanistan, o l’Isis, quando rade al suolo la città di Palmira.

Alla ricerca degli elementi costitutivi della civiltà europea e occidentale, Bonazzi li indica, ovviamente, nella Grecia e in Roma, da un lato, e nel cristianesimo, dall’altro. Non va dimenticato, però, che la concezione che vede la nascita della nostra tradizione nella prima e poi nella seconda e il coronamento nel terzo si afferma in un’epoca relativamente tarda e in un preciso contesto politico-culturale, perché, in precedenza, il rapporto fra le tre componenti era molto più fluido e articolato. L’Impero romano, in particolare, «non era bianco quanto a razza, europeo quanto a geografia, occidentale quanto a cultura». Anzi, costante, nell’ideologia imperiale, era il richiamo all’origine troiana, ossia a quel popolo orientale nemico del Greci. Richiamo che rimane ben vivo anche nei secoli medievali, quando «la tradizione greca è respinta sotto il mantello del cristianesimo ortodosso». Stando alla tesi corrente per cui sarebbe il riferimento al mondo greco a definire la tradizione europea e occidentale, ebbene, in quei secoli, si crea la situazione paradossale per cui a dichiararsi eredi di esso sono, piuttosto, i pensatori islamici. In più, l’idea stessa di un’opposizione fra il cristianesimo e l’Islam è «tutt’altro che scontata». Un papa, Pio II, invita, addirittura, Maometto II, fondatore dell’Impero ottomano, a mettersi a capo della comunità cristiana. Ne discende che Oriente e Occidente sono solo costruzioni culturali, non certo categorie naturali o oggettive.

Si ripropone così la domanda: «di cosa parliamo quando parliamo della tradizione europea e occidentale? A definire il carattere di questa tradizione sono i valori comunitari del cristianesimo […] o quelli liberali»? Senza dimenticare poi che, nel nuovo mondo globalizzato, l’Occidente ha perso quel ruolo egemonico che aveva avuto fino alla metà del secolo scorso. Esso stesso è diventato una “provincia” rispetto ad altre potenze che svolgono, oggi, il ruolo di protagoniste. In sostanza, invece di ostinarci a contrapporre Oriente e Occidente, «due categorie così ampie da rischiare di diventare vuote, potremmo provare a considerare le tensioni interne alle diverse tradizioni. La vera pluralità non si dà tra culture differenti, ma all’interno di ciascuna di esse. […] Ci sono tanti Orienti, così come ci sono tanti Occidenti, tutti impegnati, in modi differenti, nel tentativo di negoziare le coordinate di un terreno comune, in cerca di principi universali, o comunque condivisi».

Immagine Rembrandt, Negazione di Pietro, olio su tela | CC0

Giuseppe D'Acunto

Giuseppe D’Acunto: ha insegnato presso le Facoltà di Filosofia de «La Sapienza» e dell’Università Europea di Roma. È direttore editoriale della rivista di filosofia on-line «Consecutio temporum», condirettore della rivista di filosofia «Azioni Parallele», nonché membro del Comitato Direttivo del «Centro per la Filosofia Italiana»

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