I dazi che Trump intende applicare alle importazioni sono una vera e propria minaccia per le economie del vecchio continente, soprattutto per l’Italia. Si tratta di un esperimento economico che Donald Trump vende come MAGA ma che in realtà è un vero e proprio ricatto se si guarda oltre il dito che indica la luna del protezionismo americano. Infatti, pensando male nell’ accezione andreottiana, l’intera manovra potrebbe essere ricondotta al deficit pubblico statunitense. E allora il ricatto non solo sarebbe smascherato ma mostrerebbe anche un punto debole strutturale che non può essere trascurato. Intanto occorre partire da un dato: il deficit pubblico degli Stati Uniti si aggira intorno al 7% del PIL e tutto questo rende terribilmente difficile trovare finanziatori istituzionali. Se è vero che diversi Paesi, tra cui Italia e Giappone, hanno gestito livelli di deficit simili, la questione assume un’altra dimensione quando riguarda gli USA. La loro economia è così grande e centrale nel sistema finanziario globale che trovare abbastanza investitori disposti a finanziare un deficit di tale entità diventa un problema complesso.
A differenza dell’Italia, il cui debito rappresenta solo una piccola quota del risparmio globale, gli Stati Uniti necessitano di un afflusso massiccio di capitali. Questo significa che, ogni anno, gran parte del risparmio mondiale dovrebbe essere destinata a finanziare il deficit americano. Ed è proprio qui che entrano in gioco i dazi e la strategia di divisione dell’Europa.
C’è più di un sospetto nel ritenere che l’amministrazione Trump stia utilizzando i dazi non solo come strumento di protezionismo economico, ma come vera e propria leva di pressione. L’obiettivo? Costringere gli altri Paesi, soprattutto quelli europei, ad acquistare il debito statunitense a condizioni sfavorevoli. In fondo lo stesso consigliere economico di Trump lo ha esplicitamente dichiarato: gli Stati Uniti impongono dazi sulle esportazioni europee, ma sono disposti a rimuoverli se le banche centrali dei Paesi colpiti accettano di comprare i titoli di Stato americani, inclusi quelli con scadenza a 100 anni e con tassi d’interesse molto bassi.
In altre parole, si tratta di una forma di coercizione economica che obbliga l’Europa a finanziare il debito americano, pena una guerra commerciale che colpirebbe duramente le economie del Vecchio Continente, a partire dalla nostra. Questa strategia equivale a una confisca indiretta delle riserve sovrane europee, con un impatto particolarmente negativo per l’Eurozona.
L’effetto di questa politica non si limita ai Paesi tradizionalmente critici nei confronti di Trump, ma colpisce anche quelli che si sono mostrati più vicini alla sua visione, come l’Italia di Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio, che ha cercato di mantenere un rapporto di collaborazione con Washington, si troverà a dover rispondere a una sfida difficile: accettare di finanziare il debito americano o subire pesanti ripercussioni commerciali.
La domanda cruciale è: come intende reagire il governo italiano di fronte a questa strategia? Finora, Meloni ha cercato di mantenere un equilibrio tra il sostegno all’alleato americano e la difesa degli interessi economici italiani. Ma se l’Europa non riuscirà a trovare una risposta comune, il rischio è che ogni Stato si trovi a negoziare da solo con gli Stati Uniti, in una posizione di debolezza.
Il deficit pubblico americano è un problema globale, non solo statunitense. La politica dei dazi di Trump è molto più di una semplice misura protezionistica: è uno strumento di pressione per costringere altri Paesi a finanziare il debito degli USA. L’Europa è il bersaglio principale di questa strategia, e nessuno Stato, nemmeno quelli più vicini politicamente a Trump, potrà sottrarsi alle conseguenze.
Il PRI, da sempre difensore delle politiche euro-atlantiche e sostenitore degli USA, ha un dovere in più in questa partita, avendo i titoli storici e politici per farlo: non aver timore di denunciare questo stato di cose e incalzare il governo ad essere meno timido nei confronti del riferimento democratico più importante dell’Occidente. Magari seguendo l’esempio di Macron che non si limita a partecipare ai pranzi di gala ma parla alla pari con Trump, rinfacciandogli senza timori bugie e fatti mancati.
Anche perché la vera questione ora è: l’Europa saprà rispondere in modo unitario o cederà alle pressioni? E, soprattutto, Giorgia Meloni è pronta a prendere una posizione chiara su questo tema?
George Washingthon’s Mount Vernon