Della storia del Risorgimento italiano si conosce più o meno la conclusione, mentre è difficile trovarle un inizio, per la semplice ragione che questo inizio non è nazionale. La Repubblica partenopea che vide un governo patriottico democratico capace di cambiare completamente lo scenario politico della penisola, la Repubblica di Venezia era più oligarchica della corte di Vienna, venne derubricata ad un episodio del giacobinismo ed in quanto tale estraneo ad un Risorgimento che si completò comunque sotto casa Savoia. Il partito repubblicano italiano ha avuto l’onore di ospitare nelle nostre liste ed eleggere in Parlamento a Bruxelles uno dei più grandi storici europei, quale Rosario Romeo. Romeo, intellettuale magnifico era cavouriano e non c’era verso di mettergli in questione l’opera di Cavour. Il massimo che poteva fare per la tradizione mazziniana fu di salvarla dall’accusa di giacobinismo che le aveva rivolto uno storico ancora più importante di lui, Alexis de Tocqueville. Era Garibaldi il portatore del progetto politico rivoluzionario di tipo giacobino, scrive Romeo. Solo che Romeo mentiva, Garibaldi non aveva nessun progetto politico era solo un militare con idee anche confuse, il brav’uomo. Aveva ragione Tocqueville, come è ovvio..
Questa radice giacobina del risorgimento italiano, non è puramente tale, infatti, questo probabilmente confonde anche Romeo, nessuno appare più critico di Mazzini con il giacobinismo. Mazzini rompe con gli ambienti francesi legati al Buonarroti, e viene collocato già intorno al 1830 sul fronte della destra repubblicana, Alessandro Galante Garrone, “I rivoluzionari dell’800”, che si raduna introno a Le Costitutionel di Cavaignac. Non fosse che anche questo è fronte di un equivoco. Quella che viene chiamata comunemente “la coda di Danton” è la parte politica che rigetta l’immagine buonarrotiana data di Robespierre, ovvero un prototipo del socialismo. Robespierre era integralmente un esponente borghese. Per cui Le Costitutionel non proponeva la lotta di classe, ma la lotta al privilegio. Robespierre mandava al patibolo i suoi colleghi terroristi che usurpavano i loro poteri come gli aristocratici. Così Mazzini non trova nessuna ragione di contrapporsi alla nobiltà se essa serve la causa rivoluzionaria, in Italia soprattutto, la nobiltà non aveva ragione alcuna di sottomettersi allo straniero. I rapporti fra Mazzini e la Francia sono dunque profondi e controversi. Da una parte egli deve tutto alla rivoluzione, la sua famiglia era giacobina, dall’altra la parabola giacobina sconfina nel socialismo di Buonarroti. Mazzini conserverà Robespierre originale. “I doveri dell’uomo” sono legge autografa del capo giacobino votata dalla Convenzione.
Poi c’è Bonaparte che annichilito il Piemonte, sbaragliato l’Austria, rimosso il potere pontificio, fa due regni d’Italia. Il primo nel Nord è un regresso, subentra alla Repubblica cisalpina. Il secondo è un prodigio, caccia i Borboni. Nel 1808 arriva Murat. Non bisogna lasciarsi impressionare dalle memorie di Fouché inviato da Napoleone a spiare il cognato. Fouché scrive quello che Napoleone vuole leggere della corte più affettata, ridicola ed intrigante d’Europa. In vero Marat ha fatto di Napoli il regno più moderno d’Europa, introducendo il codice napoleonico, realizzando le infrastrutture, riformando la scuola, abolendo la proprietà feudale. Questa eredità gli sopravvive e rimane insuperata fino ai tempi nostri, Non si sono fatti gran passi avanti dopo Murat nel Mezzogiorno. L’unità nazionale dei Savoia sarà più un processo coloniale che altro, spogliando quanto il regno di Murat aveva realizzato. Si è discusso poi a lungo di quanto fosse autentico il sentimento italiano di Murat e quanto dovuto alla sua ambizione portentosa. Non è poi così importante convincersi di una tesi o dell’altra. Il proclama di Rimini, resta il primo autentico richiamo all’Unità d’Italia democratica e insurrezionale. Alla sua testa non c’è un re francese, ma il popolo napoletano. Murat è anche il padre del nostro meridionalismo.
Fucilato a Pizzo Calabro il 13 ottobre del 1815, Murat assume invece il triste primato dell’indifferenza della massa contadina meridionale all’indipendenza, altro giudizio discutibile. Murat aveva perso a Tolentino, Napoleone a Waterloo e gli umori nei suoi confronti si erano raffreddati, soprattutto i Borboni lo attirano in un tranello. Bisogna pur sempre ricordarsi del giudizio di Napoleone su suo cognato, valorosissimo sul campo di battaglia, debolissimo in politica. Anche questo bagaglio fa parte dell’eredità muratiana, per lo meno la debolezza politica. Il valore, il coraggio, la spregiudicatezza, l’intuizione militare, di cui persino Bonaparte era un po’ geloso, queste erano qualità solo sue.
foto gruppo storico Gioacchino Murat