Una nuova biografia di Benedetto Croce era ormai necessaria. Ci pensa Emanuele Cutinelli-Rendina con un testo poderoso e godibile, di oltre settecento pagine, il primo di due volumi annunciati per l’editore Aragno. Una vita quella di Croce, come ha avuto modo di osservare Gianfranco Contini, in cui, per l’intensità almeno, la Natura ha superato se stessa. Necessaria, dicevamo, anche perché la biografia di Fausto Nicolini, uscita nel 1962, era a monte, “e pertanto inevitabilmente ignara, di un imponente lavoro critico e documentario venuto alla luce nel corso dei decenni seguenti, una volta peraltro estinto il vincolo ventennale da Croce imposto alla consultazione del proprio archivio”.
Benedetto Croce è compiutamente napoletano. Le radici abruzzesi saranno “una tardiva e assai parziale riconquista della maturità, allorché nell’estate del 1910, dopo la nomina a Senatore del Regno […] andò a conoscere i luoghi in cui era nato e che non aveva mai avuto l’occasione di visitare”. Non trovò in quell’occasione praticamente nulla dentro di sé, nessun palpito, nessuna emozione nel profondo, giusto una “consapevolezza debole, intermittente e sfuggevole”: «L’uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in modo nuovo; piuttosto che filius locis, è filius temporis».Fu educato nel Collegio della Carità, una istituzione nata per mettere a riparo l’aristocrazia e l’alta borghesia cittadina dall’educazione laica che si stava sempre più affermando nello Stato unitario. Ricevette così una “onesta educazione morale e religiosa”, senza superstizioni e senza fanatismi, ma dei protagonisti del dibattito culturale dell’epoca, Mazzini, Garibaldi, Cavour, insomma: il Risorgimento tutto, neanche l’ombra. Il massimo dell’italianità che vi si esprimeva era una cauta evocazione degli ideali del neoguelfismo. «Contro l’esplicita interdizione della madre seguì anche, durante la terza liceo, alcune “innocue” lezioni di logica dello zio Bertrando Spaventa, al bando della famiglia Croce da quando aveva lasciato la tonaca sacerdotale per la filosofia hegeliana e, come il fratello Silvio, aveva dato piena adesione al moto Risorgimentale».
Il terremoto di Casamicciola del 1883, Croce stava passando con la famiglia un breve soggiorno a Ischia, è una ferita che mai si risanerà del tutto: il filosofo perderà il padre, la madre e la sorella. Per il diciassettenne Benedetto e per il fratello sorgeva l’esigenza di avere un tutore. Ad assumere la tutela fu Silvio Spaventa che lo portò con lui a Roma. Una città che Croce non riuscì mai ad amare del tutto, ma furono gli anni delle prime ricerche erudite, delle prime amicizie e delle prime corrispondenze. Tornato a Napoli, prese alloggio in un appartamento a Palazzo Sirignano, in piazza Municipio. Si dedica alla storia e alla cultura della sua città. Entra tra l’altro in corrispondenza con Alessandro D’Ancona, una delle maggiori personalità della storiografia dell’epoca, il quale si risente per una sferzata del giovane contro gli “specialisti”. «Gli era sembrato opportuno alludere alla grettezza di mente che si trovava in moltissimi […], che consiste nel considerare il loro ramo di studi non come un ramo, ma come un albero, anzi come tutto il mondo vegetale; il loro campicello come l’universo, e che s’accoppia con una grande indifferenza di tutto il resto dello scibile. Lo specializzare non accompagnato dalla coscienza e dall’interesse pel sapere in generale, mi sembra una fissazione pedantesca, e non una funzione scientifica». Certo, la voluttà dell’erudito, che tutto segue e accompagna, rischia di far precipitare nell’esatto opposto: il “dilettantismo”, rischio che si evita cercando di andare a fondo a tutte le questioni. Croce si diede a un’orgia di pubblicazioni erudite: “memorie, opuscoli, articoli, un grosso libro sul teatro napoletano, tanta roba, troppa roba. «Ne restai col cervello vuoto, con lo spirito nauseato. Quello non era un costruire, era un ammucchiare». Inizieranno allora a delinearsi quelle che saranno sempre come strutture portanti del suo pensiero: “anzitutto l’unità dello spirito umano, che nell’unità conserva le distinzioni delle sue forme o funzioni”. Grazie ad Antonio Labriola comincia a interessarsi di Marx e del materialismo storico. Venne a contatto con la crema della cultura socialista italiana ed europea. Colpiva la sua età e il rigore delle sue analisi. Ma non gli riuscì di innamorarsi, né di dirsi socialista con convinzione. Gli riuscì però di guardare con occhi diversi la stagione dell’idealismo tedesco, per acquisire una coscienza politica più realistica e moderna: «A poco a poco mi son convertito alla convinzione che fa dell’economia l’ossatura della storia». Con questo, anche una precisa idea della storia e di come si dovesse fare storiografia: si deve superare “l’ingenua credenza comune dell’obiettività dello storico: quasi che le cose parlino e lo storico stia ad ascoltare e a registrare le loro voci”. «Chi si mette a comporre storie ha innanzi documenti e racconti, ossia piccole parti e segni di ciò che è realmente accaduto; e, per provarsi a ricostruire l’intero processo, gli è necessario ricorrere a una serie di presupposti, che sono le idee e le notizie che egli possiede delle cose e della natura, dell’uomo, della società».
Uno dei più importanti compagni di strada nell’avventura cultura di Croce fu senza dubbio Giovanni Gentile. Entrambi prendevano atto della mediocrità della cultura ai loro tempi. «Dopo il periodo di attività del Risorgimento, decadde la filosofia in Italia; e gli sforzi poderosi dello Spaventa per formare una coscienza filosofica come uno sviluppo della nostra storia sono riusciti infruttuosi come l’opera critica e l’insegnamento del De Sanctis, che rampollano dallo stesso bisogno di fare la mente italiana. Ma quegli uomini s’erano temprati nella rivoluzione, che ci aveva tutti fatto rivivere davvero. Poi, spentasi quella fiamma, i venuti dopo sono tornati, com’era naturale, indietro. […] Lo spirito nazionale non si improvvisa; e senza di esso, o almeno senza intima comunanza di spiriti, senza coscienza comune, non può esserci filosofia». L’incontro di Croce e Gentile avveniva nel segno di una comune battaglia antipositivistica, ma anche di un impegno civile in cui porsi come eredi autentici degli ideali e degli uomini del Risorgimento.
Il racconto di Cutinelli-Rendina restituisce poi altri momenti salienti della vita del filosofo. Il rapporto controverso con la Massoneria, l’Istituzione che ha contribuito in modo significativo alla crescita culturale del Paese e di cui Croce non ha saputo coglierne la reale portata, liquidandola con un fare un po’ provincialotto, riassumendola in schemi piuttosto dozzinali e immaginando spesso cospirazioni e intrighi ai suoi danni. L’esordio della sua rivista, La Critica, un bimestrale che fu pubblicato per quarantadue anni di seguito a partire dal 1903. L’esordio del suo particolare ‘Sistema’ con il volume dedicato all’Estetica. Ma soprattutto l’incontro con il suo editore storico, un ventottenne cartolaio originario di Purignano che cercava di dare un nuovo indirizzo alla modesta azienda impiantata a Bari con i fratelli: Giovanni Laterza. «Agli occhi di Laterza Croce si mostra immediatamente […] come il detentore di solide competenze e di una sicura capacità di orientamento, di una vasta rete di conoscenze e di un gusto esercitato». E Croce dà indicazioni su tutto: “la semplicità dell’edizione è la vera eleganza”, “vi prego […] di usare una forma tipografica senza ghirigori di caratteri”. Anche la carta ha la sua importanza: «Credo di avere il diritto […] che una pubblicazione da me diretta non caschi nel ridicolo con queste continue variazioni di carta, che fanno somigliare non già a un’edizione della ditta Laterza, ma a quelle dei vecchi tipografi napoletani”. Rinunciare all’idea di pubblicare chiunque a sue spese, evitare gli omaggi (“libro donato è libro che non si legge”). Una stagione culturale concentrata sulla diffusione dell’idealismo tedesco, Kant con le sue tre critiche, Fichte, Schelling, Hegel, ma anche autori come Schopenhauer e Herbart, Spinoza, Campanella e Bruno, che tanto piaceva a Gentile. La traduzione crociana dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio viene proposta insieme al primo libro pubblicato per l’editore barese: Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, un testo “che ha per iscopo di far capire agli italiani la necessità di studiare Hegel e il modo di studiarlo”. Hegel fa sua l’essenza della realtà storica: «Il movimento o svolgimento non è niente di singolo e contingente, ma è un universale; non è niente di sensibile, ma è un pensiero, un concetto, per l’appunto il vero concetto della realtà; e la teoria logica di esso è l’universale concreto, sintesi di opposti. […] La realtà è nesso di opposti, e non si sfocia o dissipa per effetto dell’opposizione: anzi si genera eternamente in essa e da essa. E non si sfascia o dissipa il pensiero che, come suprema realtà, realtà della realtà, coglie l’unità nell’opposizione e logicamente le sintetizza».
Contro Croce e Gentile (e Hegel) c’è la superstizione del positivismo che “aveva creduto di poter assolutizzare un sapere parcellizzato, uno specialismo che se pure espresse a suo tempo un’esigenza legittima, aveva poi finito con lo sclerotizzarsi in astratto naturalismo: non dunque culto delle cose concrete e positive, ma borioso culto di quel culto, incapace di risalire all’ ‘uomo intero’”. Nell’ultimo mezzo secolo era prevalso “il tipo dell’uomo che ha conoscenze non poche, ma non ha la conoscenza; che è ristretto a una piccola cerchia di fatti o dissipato tra i fatti della più varia sorta, ma che così ristretto o dissipato, è privo sempre di un orientamento o, come si dice, di una fede”. Usciva intanto il volume sulla Logica e la Filosofia della Pratica, con la difesa della religione dall’insolenza superstiziosa e dal fanatismo degli illuministi e con una sostanziosa parte dedicata al diritto. «Le leggi sono astratte e divengono davvero concrete ed attuali solo nella volontà individuale che di volta, prendendole come proprio contenuto, le vuole rendere tali». Con il che si propongono le premesse tanto per la desacralizzazione, indizio di una sensibilità tipicamente liberale, dello Stato, che “non è entità, ma complesso mobile di svariate relazioni tra individui”, e ogni forma di giusnaturalismo.
La biografia, dopo gatti, ville da comprare e primi discepoli – “scrittori vivaci e mordaci, anime scosse e inebriate per virtù d’idee; non pedestri infilzati di brani e di periodi altrui con frigidi commenti propri, a scopo scolastico e professionale, quali di solito coloro che riempiono le riviste filosofiche” – racconta la sua nomina a senatore del Regno, attardandosi anche su risvolti più intimi e personali, come la morte della adorata Angelina, con cui Croce visse per 21 anni o le prime distanze dalla filosofia che Giovanni Gentile stava elaborando. L’attualismo del filosofo siciliano, così come andava delinearsi dal 1913, gli sembrava un idealismo di ascendenza spaventiana, con un’ansia quasi religiosa verso l’hegeliana unità, che non prestava interessa a quanto al napoletano interessava di più: «I problemi della particolarità, e il mondo e le passioni e le forme peculiari dell’attività umana. […] Ripugno qualsiasi dottrina che, una volta per sempre, mi sciolga l’enimma della realtà, perché non c’è l’enigma, ma gli infiniti enimmi della realtà, che tutti si sciolgono via via e non si esauriscono mai». «Se esistesse la suprema verità, se il Gentile l’avesse ritrovata», scrisse poi nel 1916 ad Armando Carlini, «che cosa faremmo noi tutti? I coglioni? E che cosa farebbe egli stesso? Scoperta la suprema verità, egli resterebbe di fronte ad essa come un coglione, perché non potrebbe certo scoprire una seconda verità superiore».
Con Teoria e storia della storiografia si cominciava anche a mettere a fuoco la sua peculiare concezione della storia. «Se è inconcepibile una storia universale, o una storia compresa in un disegno che ne riveli il significato una volta per tutte, del pari non sistematica e non conclusiva è la stessa filosofia, che di quella storia varia molteplice inesauribile è la altrettanto varia molteplice inesauribile coscienza: “Come la storia, rettamente intesa, abolisce l’idea di una storia universale, così la filolosofia, immanente e identica alla storia, abolisce l’idea di una filosofia universale, ossia del sistema chiuso”». Il primo volume di Cutinelli-Rendina ci lascia allo scoppio della prima guerra mondiale, all’incontro con la seconda donna della sua vita, Adele, che gli diede cinque figli (Elena, Giulio, Alda, Livia, Silvia) e il primo bilancio del suo pensiero in Contributo alla critica di me stesso. «Apro tutte le porte del mio intelletto ai dubbi e alle voci delle nuove esperienze, sicuro che ciò che ne verrà fuori, se correggerà ciò che mi illusi di aver pensato, non potrà mai distruggere quel che un tempo effettivamente pensai, e che è perciò perpetuamente vero, e anzi ne confermerà ed amplierà la verità con nuove verità che prima non potevo pensare perché non se ne erano formate ancora in me le condizioni e non ne era sorto il bisogno». In tal senso, annota il biografo, “egli avverte che il proprio storicismo – per il quale non ha ancora coniato l’epiteto di ‘assoluto’, ma è nondimeno tale – comporta il congedo definitivo dalla filosofia, quando questa sia intesa ‘in senso stretto o scolastico’, che ha come sua forma letteraria ‘il trattato, la dissertazione, la disputa, l’esame storico delle dottrine dei cosiddetti filosofi’. «La perfezione del filosofare sta […] nell’aver superato la forma provvisoria dell’astratta “teoria”, e nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata».
Nella foto Benedetto Croce con Enrico De Nicola | CC0