Per i greci era necessario considerare il valore delle cose. Tàlanton indicava la bilancia e si intendeva anche il peso. Presto si applicò il termine alla cosa pesata, e all’ingegno con cui la si metteva a frutto. Avere talento indicava quindi un valore, ancor prima che un prezzo, ma anche una grande capacità nel saperne ricavare beneficio. Ecco perché Gian Luca Campagna è uno scrittore di talento: perché da anni ha saputo mettere a sistema le sue qualità ed è riuscito nell’impresa che per tanti è utopia: fare marketing con la cultura, organizzando eventi che hanno saputo incidere e scrivendo romanzi che appassionano e coinvolgono.
Cosa vuol dire scrivere? «Non lo so ancora e posso impararlo solo scrivendo. Forse comunicare, creare un ponte con chi ti legge, entrarci in empatia».
Cosa ti emoziona sapere, cosa dovrebbe dirti un lettore, il più bel complimento? «Quando mi viene restituita una lettura diversa dalla mia. Io metto in scena punti di vista, quelli dei miei personaggi, ma abitiamo tutti insieme temi sociali».
Campagna si è iscritto all’interno di un genere, quello del noir. Che spesso si confonde con il Giallo… «Sono due cose diverse. Il Noir ha in sé elementi della tragedia greca, con l’ineluttabilità del destino, e il sentimento dell’umano, io penso sempre all’Edipo Re di Sofocle. Ma il Noir che amo ha radici anche nel verismo italiano. C’è un mistero, certo, ma soprattutto uno scavare nei personaggi, quasi un metterli a nudo. Nel Giallo c’è per lo più intreccio, un giocare a scacchi col lettore, un condurlo nella ricostruzione di un qualcosa passo dopo passo, prendendolo per mano. Nel Noir magari il colpevole ce l’hai subito. Il Giallo è manicheo, bianco o nero. Il Noir è fatto di sfumature, fragilità. Prendi il mio José Cavalcanti, ha in sé tutta questa complessità. Ed è, lo dico con orgoglio, un campione di politicamente scorretto».
Tutto questo viene reso con precise scelte stilistiche. Qual è la tua caratteristica, da cosa ti riconosco? «Mi piace un linguaggio diretto, senza fronzoli. Poi ci sono parti diciamo così barocche, nella descrizione. Quando mi sono formato mi si disse che la mia forza era questa: descrivere gli ambienti. La quinta scenica se vogliamo dirla così. Poi lì dentro ognuno parla e agisce per quello che è, per come è».
Ti capita mai di dire: questa pagina non va bene, devo riscriverla da capo? E nel caso, perché? «Sì, sempre. Quando sento che non c’è armonia. Mai per questioni di intreccio. Ho sempre chiara l’architettura narrativa in testa, anche se nel corso della stesura non è mai così rigida. Ma tutto è costruito a partire dal finale, che è la prima cosa che ho in testa. Una cosa che mi è rimasta dalla lettura di Edgar Allan Poe, con questi congedi narrativi che ti disorientavano».
Non solo forma. Il Noir si presta alla presentazione di un contenuto, un tema, spesso di attualità sociale. Nel tuo ultimo lavoro, In viaggio con la morte (Mursia), si parla di eutanasia… «È un romanzo che ho cominciato a scrivere sul finire del 2019. Mi hanno colpito alcuni episodi di cronaca nera, l’omicidio di un ragazzo e su tutto la lacerazione che questa tragedia ha causato nell’animo dei genitori. Morire a 19 anni è un dolore che sfugge a ogni controllo. La perdita con cui fa i conti la mia protagonista che decide, appunto, di rivendicare il diritto di non esserci più. Perché se perdi il senso della vita, allora diventa un sopravvivere. Gianni Colavita è un giornalista che dieci anni prima aveva seguito da cronista di nera la morte del figlio di Carla, vedova e malata terminale. Carla chiede a Gianni di accompagnarla a Lugano per il suo ultimo viaggio verso la clinica dove ha prenotato il suo suicidio assistito».
Quanta biografia c’è nelle tue storie? «Guai se non fosse così. C’è tanto lavoro di osservazione ma metterci dentro il mio sentire e il mio vissuto dà sangue ai miei personaggi, dà quelle sfumature che rendono più veri anche quelli secondari. Da dire anche che in tutti i luoghi che racconto io ci sono stato per davvero».
Hai avuto maestri a cui devi la tua maturità di adesso? «Tutte le persone che ho incontrato, tutti i libri che ho letto».
In questi anni hai viaggiato molto. Come trovi la realtà culturale? «Lo stato di salute del romanzo è discreto. Certo, si dovrebbero creare maggiori ponti tra gli autori contemporanei e gli studenti. E dobbiamo fare i conti col fatto che in Italia si legge poco, rispetto ad altri Paesi europei».
Spesso ci si trova a presentare libri in eventi surreali in cui nessuno dei presenti li ha letti. «Spesso si va a queste cose come se fossero eventi mondani, perché vuoi essere visto. O devi compiacere. Si fa relazione. E magari ci sta. Eppure bisognerebbe arricchirsi, è quello che ho fatto io. A volte bisognerebbe scrivere di meno, e leggere di più. Alla gente non piace leggere ma piace leggersi, dice qualcuno. Qualche volta non c’è l’umiltà di capire che scrittori lo si diventa, e lo si diventa con sacrificio, a confronto con i grandi. Mi è capitato di chiedere a qualcuno, di recent: ma tu a chi ti rifai? E lui mi ha risposto: io leggo solo le cose mie, non ho bisogno di leggere gli altri. Ecco, questa autoreferenzialità è una cattiva abitudine di chi sta qui dietro le pagine che fa altrettanto male delle cattive abitudini che lamenti tu di chi sta dall’altra parte. In entrambi i casi si fa danno a questo che dovrebbe essere patrimonio comune della crescita della collettività».
Manca la capacità di discriminare l’amatore dal professionista? «C’è il rischio nelle comunità locali di non aver ben chiaro che se giochi in un campionato di terza categoria, in serie A non ti fanno fare nemmeno il massaggiatore. Ma è come in un ristorante, quando le cose vanno male la colpa è del maitre, non del cameriere».
Rose Villain, Madame o Elodie? «Elodie».