L’autore del libro che qui presentiamo è Bruno Latour (Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, tr. it. di S. Mambrini, Einaudi, Torino 2022, pp. 184), filosofo, antropologo dello sviluppo e sociologo della scienza francese, scomparso nell’ottobre del 2022, il quale, nell’ultima fase della sua riflessione, ha rivolto il suo interesse prevalentemente all’ecologia, occupandosi, in particolare, di problemi legati al cambiamento climatico e ambientale. Prova ne è proprio questo testo il cui titolo intende rievocare il senso di smarrimento che ha colto tutti noi nei primi tempi della pandemia, quando, in regime di confinamento a casa, uscendo per strada provvisti di mascherina, incrociavamo lo sguardo spaesato, esattamente come il nostro, degli altri fugaci passanti. Il punto è che, proprio grazie al regime di confinamento cui siamo stati sottoposti, si può dire che, ora, «finalmente respiriamo». Il forzato lockdown ha dato avvio, cioè, a un cambiamento. Ci ha fornito, infatti, una preziosa occasione per riflettere sul nostro modo irresponsabile di relazionarci con l’ambiente, per mettere in discussione la nostra sterile presunzione di essere i padroni assoluti del mondo, per accendere una nuova possibilità di pensarsi da parte del soggetto umano.
«Occorre reinventare tutto da capo: il diritto, la politica, le arti, l’architettura, le città ma, cosa ancora più strana, bisogna assolutamente reinventare il movimento stesso, il vettore delle nostre azioni. Smetterla di avanzare verso l’infinito e imparare a indietreggiare […]. È un altro modo di emanciparsi». E in che cosa consisterebbe, propriamente, questo «altro modo di emanciparsi»? Si può riassumere in una formula: «Oltrepassare il limite del concetto di limite». L’invito che Latour ci rivolge è allora quello di uscire dalla prigione dei nostri corpi e di disporci all’avventura di una metamorfosi. La stessa di cui fa esperienza Gregor Samsa nel famoso racconto di Kafka intitolato appunto La metamorfosi. Al risveglio, un mattino, si ritrova trasformato in un insetto mostruoso, così che anche lui si chiede: dove sono? Non si riconosce più, ovviamente, nel suo nuovo aspetto e non viene riconosciuto, di conseguenza, neanche dai suoi familiari. Ma il nuovo stato di Gregor è proprio ciò che gli fornisce un buon punto di partenza per riorientarsi e per mettere a fuoco l’inedita situazione in cui si è venuto a trovare: gli permette, infatti, altri movimenti, altre interazioni con l’ambiente, altre piste, traiettorie, passaggi. A patto di leggere il racconto di Kafka alla rovescia, la sua metamorfosi, il suo «divenire-animale» si presenta così come una risorsa e come una via d’uscita. «Bisogna immaginare Gregor Samsa felice…», ossia vederlo non come rintanato nella sua camera per la vergogna, esposto al rischio di essere schiacciato da suo padre, ma tale che «può andare dappertutto» e che, nel suo sentire che nulla gli è estraneo, può mostrare a noi stessi come si fa, a sua volta, a guadagnare questa soglia. Ebbene, secondo Latour, forse è proprio così che di lui si può dire che è diventato «finalmente umano!», laddove sono, invece, i suoi familiari a doversi considerare come disumani.
E un analogo punto di vista critico sul presente, tale che promuova nuove possibilità di abitare il mondo, è proprio quello che, oggi, noi dobbiamo cercare, il più possibile, di far nostro. Nel senso che, volendo guadagnare un rapporto interamente “metamorfico” tra uomo e natura, tutti gli spazi di insediamento umano, dai più piccoli ai più grandi, per fungere da autentici luoghi di cooperazione, dovrebbero essere concepiti sul modello dei formicai, nel segno, cioè, di una piena continuità fra l’habitat e i suoi abitanti. O anche sul modello della cima della montagna Grand Veymont, la più alta delle Prealpi francesi del Vercors, studiata dal geochimico Jérôme Gaillardet, il quale ha mostrato come essa sia una formazione calcarea composta da detriti di coralli fittamente intrecciati fra loro. «Il concetto di ambiente non ha alcun senso, giacché è impossibile delimitare il confine che separa un organismo da ciò che lo circonda. In senso proprio, non c’è niente che ci circonda, tutto concorre alla nostra respirazione».
L’uomo si trova così ad abitare due mondi: il mondo in cui vive ed esercita la sua cittadinanza e quello di cui vive, molto più vasto, sempre più affollato e meno facile da circoscrivere. Il punto è che tutti i problemi più urgenti del nostro tempo scaturiscono proprio dal fatto che questi due mondi si danno, ogni volta, l’uno come scollegato rispetto all’altro, laddove l’impresa a cui noi dovremmo maggiormente lavorare è proprio quella di ristabilire un’intima cooperazione fra di essi. In tal senso, non esistono oggetti che, in senso proprio, possano dirsi “inerti”: tutto ciò che incontriamo – le montagne, i minerali, l’aria che respiriamo, finanche l’azzurro del cielo – non è che il risultato dell’«agentività» di forze che «remano controcorrente rispetto all’entropia». È così che, riflettendo sul fatto che, soprattutto in età moderna, noi abbiamo sempre ragionato nel segno del dualismo ontologico fra natura e cultura, dove la prima è stata oggetto di violenza e di dominio incondizionato da parte della seconda, Latour crede che sia arrivato finalmente il momento di promuovere un pensiero «terrestre», dove «terrestre» indica appunto la capacità di pensare non proiettandosi in un altrove, ma respirando e “localizzandosi”. E come prima proposta al riguardo suggerisce un accorgimento: quello per cui, nell’atto di pensare la Terra, dobbiamo avere la sensibilità di considerarla come «un nome proprio che raduna tutti gli esseri viventi», in modo da scrivere la parola che la designa con la lettera iniziale maiuscola, proprio per evidenziare come l’insieme di ciò che sotto di essa si raccoglie si inscriva in un unico universo sinergico di relazioni.
Ne discende che, ragionando nel segno di un’«etologia dei viventi», «non bisogna più pensare in termini di identità, ma di sovrapposizione e sconfinamento». Cosa che – sulle orme della biologa americana Lynn Margulis – ci impone di sostituire al concetto, troppo restrittivo, di organismo quello di «olobionte», visto che, nel corpo umano, ad esempio, «il numero di microbi necessari al suo mantenimento supera di parecchi ordini di grandezza il numero delle sue cellule». Ma se non esistono oggetti che, in senso proprio, possano dirsi “inerti” e se il nostro organismo va considerato sul modello di un «olobionte», allora, non si può più dire che noi “abbiamo” un corpo biologico, laddove si dà, invece, una moltitudine di viventi che, aggregandosi provvisoriamente, proprio grazie a noi, ci permettono di prolungare per un certo tempo la nostra esistenza. In tal senso, l’opposto di “corpo”, non è «né “anima” né “spirito” né “coscienza” né “pensiero”, ma “morte”».
Nel finale del libro, riprendendo la domanda – dove sono? – che fa da filo conduttore a esso, Latour si chiede inevitabilmente: al punto di non-ritorno in cui siamo arrivati, che fare? Ebbene, esclusa la possibilità di andare sempre dritto, non ci resta che l’opportunità di disperderci il più possibile, «a ventaglio, per esplorare tutte le capacità di sopravvivenza», per cospirare, quanto più siamo capaci, con le forze agenti che hanno reso abitabili gli spazi che occupiamo. «Sotto la volta del cielo, ridiventata pesante, altri umani mescolati ad altre materie formano altri popoli con altri viventi. Finalmente si emancipano, escono dal confinamento. Si metamorfizzano».
Foto Grand Veymon, Steynard | CC BY-NC-SA 2.0