Rivendicando al fenomeno del grigio una riflessione più approfondita di quella che a esso è stata riservata finora, Peter Sloterdijk, in un volume che esce un anno dopo l’edizione originale tedesca (Grigio. Il colore della contemporaneità, ed. it. a cura di G. Bonaiuti, Marsilio, Venezia 2023, pp. 304), inizia la sua esposizione riportando la seguente frase attribuita a Cézanne: «Finché non si è dipinto un grigio, non si è pittori». Frase che viene da lui rinforzata con quest’altra massima: «Finché non si è pensato un grigio, non si è filosofi». Per cui diventa subito chiaro come, per il nostro autore, con la parola “grigio”, debba intendersi molto di più che un mero valore cromatico, dal profilo neutro, che occupa la via di mezzo fra il bianco e il nero. Il punto è che ciò su cui il grigio ci fa riflettere «sta a metà strada fra una grandezza metaforica e una grandezza concettuale»: corrisponde a un qualcosa che, rimanendo inosservato, il linguaggio quotidiano si lascia, per lo più, sfuggire, anche perché noi gli riserviamo un campo di applicazione esageratamente vasto. «L’uso estensivo della parola nasconde un pensiero, anzi una pluralità di pensieri, della cui mole, in genere, non ci rendiamo conto». È così che, se assegniamo un ambito di competenza specifico alla «meteorologia esistenziale», ecco allora che la parola “grigio” occupa un posto preciso all’interno di essa ed è fornita di un contenuto semantico che necessita di una esplicitazione.
Vedere significa far esperienza del colore, ma, prima ancora, della differenza originaria fra chiaro e scuro, fra luce e buio. Noi, davanti a una fonte che dispensa luce, siamo sempre esposti, in modo attuale o virtuale, a un’acromaticità di vasta portata. Inoltre, quanto più si fa sentire la pesantezza quotidiana, tanto più ci sembra che il gioco abituale dei valori cromatici sia stato abolito. È questo il momento in cui il grigio, come dato visivo e come stato d’animo, prende il sopravvento, grazie al fatto che si dà come massimamente vicino alla monotonia. I colori delle cose intorno a noi si sciolgono in una tinta neutrale e la nostra percezione cromatica degrada verso il grigio scuro. «Il grigio […] è associato all’indecisione, significa medio, neutrale, ordinario, connaturato alla consuetudine al di là del desiderio e dell’avversione. Se non è colore, allora si chiama quotidianità». Corrisponde a quello che Husserl chiamava il «mondo della vita»: il mondo di una vita diversa da quella della biologia che la fisica scientista si era precluso a causa della sua illusione di oggettività.
Sloterdijk afferma che se ci venisse chiesto di indicare l’evento cardine nella dinamica culturale del Novecento, ebbene, noi dovremmo rispondere che esso sta, non da ultimo, nella «ricolorazione di tutti i valori cromatici». Intende dire che, dopo la fine della seconda guerra mondiale o, forse, addirittura, negli Anni Sessanta, i colori sono stati, via via, de-gerarchizzati e de-simbolizzati, per cui oggi viviamo nel regime cromatico dei «Colori Uniti del Presente», in cui non esistono più rapporti di sovra- o sotto-ordinazione fra di essi. Così il verde non esprime più speranza, né il blu vastità o lontananza o il rosso passione ardente. Il bianco, inoltre, perde il suo privilegio millenario che gli veniva dal fatto che, in esso, si riassumeva una lunga tradizione dell’area mediterranea-occidentale, fatta di mitologia solare, di metafisica della luce e di teologia dei colori. Per non parlare poi della rottura rivoluzionaria del pensiero dell’Ottocento, la quale «ha senza dubbio un aspetto cromatico-filosofico». Tornando al bianco, in quanto colore profondamente legato alle rappresentazioni sublimi, Sloterdijk ci ricorda come il luogo in cui si opera la prima trasvalutazione del suo valore cromatico è il capitolo 42 del Moby Dick (1851) di Melville, in cui compare, infatti, la figura della balena bianca, un mostro marino albino definito Leviatano, come l’orribile creatura menzionata nella Bibbia. «Il bianco non è più la somma di ciò che è bello; elevato al limite del perturbante, esso è l’inizio […] del terribile».
Stando a uno dei motivi-guida della filosofia del Novecento, dobbiamo ad Heidegger l’aver riconosciuto che l’esistenza è sempre calata in stati d’animo, i quali, letteralmente, colorano la sua modalità di essere-nel-mondo. Circa Heidegger, c’è così da supporre che egli abbia pensato il grigio, concependo la filosofia come un’immersione in quella vita di tutti i giorni, in cui ognuno di noi si scopre come una specie particolarissima di “animale grigio”, sospeso e sempre a metà strada fra il passato e le ansie per il futuro. Non è un caso poi che, proprio per caratterizzare la filosofia, Heidegger ricorresse a una metafora che chiamava in causa proprio il nostro colore: la configurava come la grigia nebbia che copre il mondo. Passando a Platone, il fondatore della philosophia, si può riconoscere anche a lui il merito di aver pensato il grigio. E lo ha fatto in un passo – talmente sotto gli occhi di tutti che è nascosto – dell’opera, forse, più letta della classicità ellenica: il mito della caverna del Libro VII della Repubblica. Qui, il colore grigio entra in gioco a proposito di quelle che Platone chiama «ombre»: le apparizioni che si susseguono sulle pareti della caverna, in quanto riflessi degli oggetti di vario tipo di cui oscuri portatori si fanno carico passando davanti al fuoco. «Ombre», proprio come, alcuni secoli prima, Omero aveva chiamato quei fantasmi senza corpo dei morti che gli eroi incontravano nel loro viaggio nell’Ade. Volendo trarre alcune conseguenze dalla teoria delle ombre di Platone, si può dire allora che, dove ci sono le ombre, lì «gli uomini si muovono in una zona grigio scuro che tende all’oscurità, a una notte senza ritorno», a una notte simile alla morte. Ma chi, più di tutti, ha visto il grigio come una proprietà del filosofare è stato Hegel, per il quale bisogna andare alla «Prefazione» ai Lineamenti di filosofia del diritto, laddove si legge che «la filosofia dipinge grigio su grigio» e che «la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo». Per Sloterdijk, Hegel starebbe affermando che la realtà è la grigia stratificazione di materiali molto concreti che il filosofo deve rimodellare in concetti. Operazione, questa, per cui ha bisogno di un certo tempo e che, quindi, porta a compimento solo al calare delle grigie ombre della sera. «La filosofia, perciò, non è solo quella volontà di completezza che complica il raggiungimento di un risultato, non è solo il processo continuo e il lavoro sempre nuovo del concetto che evita la fretta eccessiva, di contro alla piena del non concettuale, ma deve e vuole anche ammettere di produrre frasi finali di altissimo valore senza concedere nulla alle affermazioni della domenica. Tali farsi appaiono colorate di grigio, meglio ancora: di un grigio specifico, grigio su grigio».
Nella fenomenologia del grigio elaborata da Sloterdijk trova spazio anche la figura di Dante, il quale, con il Purgatorio, cantica che, nella Divina Commedia, sta dopo i gironi dell’Inferno, ma prima dei cieli del Paradiso, insegna che l’uomo è un’ambigua creatura del Centro, né del tutto reietta né salva, la cui esistenza, essendo costellata di “zone grigie”, può farlo aspirare a un viaggio di espiazione nel terzo regno. “Zone grigie” in cui possiamo vedere il riemergere del concetto stoico di «indifferenza etica (adiafora)», il quale ci dispone a un atteggiamento equilibrato, più moderno e tollerante verso il mondo.
E proprio da quest’ultimo punto, possiamo ricavare il messaggio complessivo che Sloterdijk consegna a noi con il presente volume, adombrato già dal suo sottotitolo. A noi abitanti dell’era digitale e globale, che viviamo un ritorno prepotente di ideologie populiste e sovraniste e un rigurgito di guerra. Di disporci ad «ascoltare le vibrazioni più moderate che emanano dal grigio», perché proprio il grigio è quel «fluido che fa emergere il proprio tempo appreso nel colore».
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