Questo libro di Roberto Esposito (Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione, Einaudi, Torino 2023, pp. XVIII, 148) segna la stazione di arrivo di un percorso iniziato con Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020) e poi proseguito con Istituzione (2021). Rispetto a questi due ultimi, il progetto che viene perseguito nel primo è, però, decisamente più ambizioso: non ripercorrere il pensiero filosofico nel segno della semantica dell’istituzione, ma provare ad osservarlo «da un punto di vista esso stesso istituente». Tutto ciò mette capo alla ricostruzione di una genealogia che, dai tre nomi che sono all’origine della teoria delle istituzioni – Machiavelli, Spinoza, Hegel –, giunge fino ai nostri giorni. Con l’aggiunta che, per l’autore, il termine “genealogia” non va preso in senso generico, ma in senso preciso, «inafferrabile con gli strumenti della storiografia o della filologia». Gli autori, moderni e contemporanei, che si susseguono nel libro, sono interrogati così a partire dal lemma stesso da cui esso prende il titolo – vitam instituere, appunto –, locuzione latina non solo di incerta provenienza, ma in sé anche enigmatica e altamente problematica. Lo prova il fatto che ciò a cui questo lemma allude è al carattere tanto istituente quanto istituito della vita, per cui il nesso che qui viene in primo piano è quello che intreccia fra loro, inestricabilmente, diritto e vita: quello in cui si lascia intravedere «la dimensione potenzialmente vitale delle istituzioni».
Molto indicativo è il fatto che, per quanto il lemma vitam instituere nasca all’interno della giurisprudenza romana, quest’ultima, restando imprigionata nella trama fittissima del suo formalismo, non è in grado di recepire tutta la sua «intensità semantica». E questo perché ogni volta che la civiltà romana incrocia la vita, lì essa la sottomette, immancabilmente, ai suoi «dispositivi escludenti». Sia chiaro, però. Non che al diritto romano sia del tutto ignota la «prassi istituente». Solo che essa viene riservata unicamente ai rapporti privati e non estesa anche al dominio della collettività umana. Per cui, accanto a un’idea destoricizzata di natura, l’altro grande limite contro cui si scontra la giurisprudenza romana è dato dalla mancanza di un’idea di soggettività giuridica. L’istituzione non ritrova un nesso intrinseco con la vita umana neanche nel mondo cristiano, quando la natura non è più sottoposta alla legge, ma si sovrappone a essa. Così, mentre a Roma era il diritto che subordinava a sé la natura, ora è la natura a dettare quelle norme, volute da Dio, che poi si trasmettono alle varie legislazioni. L’età moderna, relativamente alla riflessione sulle istituzioni, si apre con Machiavelli, nella cui formazione molto rilevante è, non a caso, la presenza dell’esperienza romana. Nel fondatore della scienza politica moderna troviamo, non solo, nel Principe e nei Discorsi, la teorizzazione del primato dell’istituente sull’istituito, ossia la tesi secondo cui le istituzioni si conservano fino a quando mantengono un rapporto con la propria fonte, ma anche l’altra tesi che, rompendo la dicotomia tradizionale fra ordine e conflitto, porta a vedere il secondo come ciò che sta alla base del primo.
Passando a Spinoza, c’è una tesi interpretativa che lo riguarda che va, innanzi tutto, riveduta: quella che riconduce la sua metafisica a una prospettiva “destituente”. Al centro della riflessione del filosofo olandese c’è, infatti, il concetto di potenza, intesa come un qualcosa che, essendo sempre in atto, è «continuamente istituente». Spinoza «è il primo filosofo ad assumere in pieno il principio del vitam instituere». La sua è una concezione della natura completamente inedita rispetto al passato, nel senso che essa si configura come l’orizzonte generale entro cui ogni cosa è inscritta. In lui, non c’è passaggio dallo stato naturale allo stato civile, come, ad esempio, in Hobbes, ma la «prassi istituente», facendo tutt’uno con la vita dei cittadini, fa sì che il diritto di ciascuno coincida con la potenza di cui egli è capace. Vita individuale e vita collettiva, in Spinoza, però, per quanto inseparabili, non arrivano mai a coincidere. Di qui, lo scarto che permane fra ontologia e politica, le quali resistono sempre al tentativo di una loro unificazione.
Quanto a Hegel, poi, anche nel suo caso c’è una prospettiva interpretativa dominante da correggere: si tratta di «leggerlo non dal lato dell’idealizzazione della realtà, ma da quello della realizzazione dell’idea». E questo perché l’istituzione è, nel filosofo tedesco, un’idea che si concretizza in forme oggettive. In questa chiave, la dialettica stessa si offre a noi sotto un nuovo aspetto, nel senso che ciò che essa porta avanti è il processo istitutivo del reale attraverso un confronto, anche drammatico, con il negativo. In Hegel, l’istituzione è ciò che proietta l’essere umano dalla dimensione biologica verso l’orizzonte della storia. Cosa che richiede che siano sviluppati due propositi: muovere una critica al formalismo del diritto romano, anche nelle sue riproposizioni a lui coeve, e mettere capo a una rielaborazione del concetto di natura che la rimetta in circolo con la storia. Pensare la natura come processo vuol dire, infatti, far sì che il diritto si offra come suo «criterio di leggibilità immanente». «In questo senso la riflessione giuridica hegeliana, esterna tanto al normativismo quanto al decisionismo, può essere posta all’origine del pensiero istituzionale, nel senso che gli uomini non si limitano a produrre norme e decisioni,
ma le solidificano in istituzioni durevoli». Certo, non va dimenticato il quadro storico entro cui Hegel si trova inscritto, nonché le incomprensioni e i pregiudizi che caratterizzano la sua filosofia della storia, nei confronti, ad esempio, delle civiltà non occidentali. Ma tutto ciò non toglie che lui «apra uno spazio nuovo al pensiero istituente», proprio nell’atto con cui sposta la riflessione politica e giuridica «dal piano della filosofia a quello dell’ontologia».
Dopo la ricognizione critica condotta nei tre autori appena esaminati, Esposito, confrontandosi con il tema dell’istituzionalismo del Novecento, perviene a delle conclusioni, alcune delle quali proverei a riassumere così. Poiché «[n]on c’è natura senza storia, nel senso che l’uomo è un animale naturalmente storico, vale a dire situato in un contesto che egli stesso contribuisce a formare», ogni «prassi istituente» non deve mai interrompere la relazione con il sostrato biologico dell’esistenza umana, altrimenti la vita si dà esclusivamente come già istituita e non presenta in sé più nulla di naturale. L’istituzione deve svolgere così una «funzione stabilizzante», tale da interrompere «la fluidità del movimento sociale in momenti discontinui che di volta in volta lo consolidano e lo determinano funzionalmente». In questa luce, compito del diritto è quello di «trattenere la vita», incorporandone la potenza, proprio al fine di conservarla. La vita biologica, inoltre, non è solo affermazione, ma deve confrontarsi anche con un elemento di negatività, il quale, impedendone la dissipazione, la aiuti così a rafforzarsi.