L’impegno filosofico di Antonio De Simone è un delicato incastro tra la complessità del presente, la voglia di comprenderlo e la capacità di raccontarlo. Questa sua ultima fatica, una delle sue più effervescenti (Jacques Derrida, Mimesis), è frutto di un antico studio che può apparire fuori tempo, nella sua ricchezza e nella sua profondità, originale, elegante, prezioso, come una Maserati in un raduno di Panda. Lo fanno davvero, il raduno, a Pandino, in provincia di Cremona. Anzi, quest’anno è stato pure record di partecipanti. Sotto il castello visconteo di Panda ce n’erano più di mille.
Se la voce è quella del verbo decostruire, per indicare il contrario della costruzione di un senso (per Salingaros Derrida è un virus, una palude in cui va giù tutta la metafisica occidentale e con lei ogni pretesa di sapere), non c’è niente di più rappresentativo di una città. Già Foucault, nell’indagare il “taglio” delle città moderne dal loro passato, ne ha indicato il destino: «Se nel medioevo domina una localizzazione basata su una sequenza in grado di generare un ordine specifico della città (si progetta ‘un insieme gerarchizzato di luoghi: luoghi sacri e luoghi profani, luoghi protetti e luoghi al contrario aperti e privi di difesa, luoghi urbani e luoghi rurali’), se l’assetto medievale è squarciato con l’incarnazione urbana dello spazio infinito galileiano (la modernità è l’epoca dell’estensione urbana), oggi invece il sistema dell’espansione sarebbe sostituito da un processo di decentramento e dislocazione in cui affiora una miriade di luoghi evenemenziali”. Tutto il contemporaneo è come ossessionato dallo spazio, perché ne sperimenta ogni giorno la “lacerazione”, scandita dall’esplosione demografica. E l’inquietudine tecno-capitalista diventa sgretolamento. Perché, come scrive Nancy, la città è innanzitutto una corsa: il territorio ha difficoltà a essere il luogo dove “l’esperienza comune viene filtrata e sedimentata”, perché non ne ha tempo e modo: il vissuto ha lasciato il posto al vivente. Quello che nel nostro quotidiano si corrompe, per tornare a Derrida, non è però il bordo di una sovranità nazionale, quello che si sta pian piano erodendo è il senso stesso della cittadinanza intesa come appartenenza. La politica per come l’abbiamo sempre detta e interpretata è in decostruzione. Scrive Derrida: «Non sono io che decostruisco, è l’esperienza di un mondo, di una cultura, di una tradizione filosofica cui avviene qualcosa che io chiamo ‘decostruzione’: qualcosa si decostruisce, non funziona, qualcosa di muove, si sta dislocando, disgiungendo o disaggiustando e io comincio a prenderne atto; si sta decostruendo e bisogna risponderne».
«La pratica stessa della decostruzione ci consente di dedurre dalle sue stesse premesse una Legge (quella dell’ospitalità) che si basa sulla decostruzione del soggetto inteso come autonomus ego. L’altro è sempre inaggirabile: «Per costruire lo spazio di una casa abitabile, […] occorre anche una apertura, una porta e delle finestre, occorre liberare un passaggio allo straniero»: là dove “non c’è casa o interiorità senza porte né finestre” allora “la monade dello chez-soi deve essere ospitale per essere ipse, essa stessa presso di sé, chez-soi, abitabile nel rapporto di sé a sé”. La Legge di Derrida è dunque “assoluta e incondizionata”: vige al di là di ogni limitazione legale o politica determinata. Essendo al di sopra delle leggi è sovversiva, illegale, “atomica”, eppure, qui il paradosso, ha bisogno delle leggi per poter diventare effettiva, concreta. Senza le leggi “rischierebbe d’essere astratta, utopica, illusoria […]”, eppure le leggi “la negano, la minacciano in ogni caso, talvolta la corrompono o la pervertono”. La sua esigenza è l’esigenza di un impossibile, perché io non riesco a lasciare il passo all’altro senza rinunciare a me, eppure per Derrida l’ospitalità o è infinita oppure non è. Non può esistere una ospitalità condizionata: “se pongono delle condizioni all’altro che viene, all’arrivante, non posso più parlare di ospitalità”.
È Marc Augé che ci ha detto che noi oggi viviamo “confinati in un presente così misero e senza fine” che sembra “l’equivalente di una condanna a morte”. Il futuro è vita che si vive da soli, non c’è dubbio, ma esso ha sempre una dimensione sociale, collettiva. Oggi però siamo eredi del disincanto, come dice Wendy Brown, l’esperienza dell’impotenza politica pervade la condizione umana “in un ordine globale saturo più che mai di potere umano: potere senza obiettivo, potere senza linee di determinazione, potere senza fine in ogni senso della parola”. Per descrivere questa situazione nemmeno il termine nichilismo basta più, scrive De Simone: «Gli interrogativi […] sono tali che rimettono in gioco non solo il ruolo di ogni narrazione progressiva, ma ridelineano altresì la possibile configurazione di ogni consapevolezza critica e storiografica come pure l’analisi politica contemporanea». Ecco perché Derrida ha una concezione della storia “come qualcosa che offusca e costringe, che incita o che ostacola, piuttosto che come qualcosa che muove, dirige o dispiega”. La storia, cioè, disvela un movimento che “va e viene, appare e scompare, si materializza ed evapora, mette insieme e poi abbandona le proprie rivendicazioni”. Così è inevitabile che una concezione della storia del genere metta radicalmente in discussione l’idea di progresso come dispiegamento verso un futuro. In questo tempo frammentato, in contrasto con se stesso, ci si sente smarriti, inquieti, disorientati, senza poter dire un passato o un presente, distinguere una storia da una memoria. C’è un tempo “disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto”, un tempo disturbato e sregolato, un tempo “fuori di sesto”. Ne è espressione la decadenza morale, la corruzione, la perversione dei costumi.
A partire da L’animale che dunque sono, Derrida sarà impegnato in una riflessione che investirà poi a tutto campo e in modo pervasivo lo spazio del “politico” e che raggiungerà la sua cifra esemplare negli ultimi seminari tenuti tra il 2001-2002 e il 2002-2003 all’École des Haute Études en Sciences Sociale, i cui protocolli delle lezioni confluiranno nel postumo La bestia e il sovrano, pubblicato tra il 2008 e il 2010. «Un mutamento di paradigma s’impone allora nel momento in cui “cercare di definire il soggetto a partire da qualche caratteristica che l’uomo possiede peculiarmente, si è rivelato […] molto complicato se non addirittura impossibile, il che sembra aver sospinto l’intelligenza del nostro tempo a riporre sempre più l’attenzione su quella “faglia” movendo la quale “un particolare vivente chiama se stesso uomo, distinguendo la propria forma di vita da quella definita semplicemente animale”. Derrida denuncia “l’appannaggio sempre umano del diritto, l’evidenza che il diritto si sia sempre costituito senza alcun rispetto per i diritti dell’animale”. È un fatto nella storia dei soggetti giuridici che quello di soggetto come fondamento del diritto “ha portato all’esclusione dell’animale dal diritto”. Secondo Derrida la “traccia metafisica” che congiunge tutti i “pensieri del sacrificio” contro l’animale è un “unico corpo vivente del delitto bestiale”, questo è quanto connotano l’ego cogito di Cartesio, l’io penso di Kant, il Dasein di Heidegger e il soggetto assoggettato e ospite del volto in Lévinas. Ma bestiale, d’altro canto, è anche il sovrano sia perché ritiene, come gli animali, di non esser soggetto a regole, sia perché organizza la sua sovranità sull’istinto, sulla paura e sul bisogno di protezione. Il protego ergo obbligo diventa il cogito ergo sum dello stato: «Ti obbligo forzandoti a obbedire con lo stesso movimento attraverso il quale, obbligandoti rendendoti il servizio di proteggerti, ti obbligo alla gratitudine, ti obbligo alla riconoscenza: a riconoscere lo Stato, la legge e a essere loro riconoscenti di obbligarti».
Le pagine più avvincenti della lettura di De Simone sono quelle che ci raccontano del corpo a corpo tra Derrida e Agamben. Al di là della controversia, comunque interessante e complessa, tocca evidenziare come in entrambi i pensatori ci sia quesa presa mortale, quella, demoniaca, dello Stato sulla ‘nuda vita’: è la nuda vita che àncora il potere e ne rende possibile l’esercizio. C’è in essi, in definitiva, un’unica logica del potere giuridico-politico che si dispiega nella storia dalle origini. «L’homo sacer è colui che, messo al bando, può essere ucciso senza commettere omicidio, ma che non è sacrificabile nelle forme rituali: vita votata alla morte in totale impunità, oggetto della relazione di eccezione. Di fronte al sovrano non ci sono i soggetti di diritto, come pretende la cultura giuridica moderna, ma la vita nuda o sacra, uccidibile: diventa così evidente il fatto che l’eccezione – come inclusione della vita attraverso la sua esclusione – è l’atto specifico che rivela la struttura della sovranità».
Foto Panda | RL GNZLZ | CC BY-SA 2.0