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La genealogia del moderno secondo Habermas

User Avatar di Giuseppe D'Acunto
27 Maggio 2023
in Cultura
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Jürgen Habermas, dall’alto dei suoi 93 anni, è senz’altro uno dei filosofi più influenti dei nostri tempi. Da circa dieci anni, lavora a un’opera monumentale, una sorta di romanzo filosofico dell’Occidente, di cui è da poco uscito, in edizione italiana, il primo dei tre volumi previsti (Una storia della filosofia. I: Per una genealogia del pensiero postmetafisico, a cura di L. Corchia e W. Privitera, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 477). Erede della teoria critica francofortese, propone di interpretare l’intero progresso morale umano nel segno della «costellazione occidentale tra fede e sapere» (così suona, infatti, il titolo originale tedesco del primo volume), tema con cui si era misurato, già nel 2004, allacciando un dialogo con l’allora cardinale Ratzinger. Da un lato, dobbiamo prendere atto della disintegrazione accademica della filosofia in tante diverse discipline, dall’altro, senza mai rinunciare a una veduta d’insieme, ossia a un «concetto comprensivo di ragione», dobbiamo richiamarla al suo compito primario di fornire una risposta a quelle grandi questioni che già Kant prospettava come domande ultime: «Cosa posso sapere?», «Cosa devo fare?», «Cosa posso sperare?», «Cos’è l’uomo?». Al riguardo, il nostro autore afferma che la filosofia tradirebbe senz’altro la sua vocazione naturale «se abbandonasse il riferimento olistico al nostro bisogno di orientamento», ossia «se non tentasse più di contribuire al chiarimento razionale della comprensione di noi stessi e del mondo». I problemi filosofici in questo, si differenziano, infatti, dai problemi scientifici: implicano un «riferimento al mondo intero» e un «riferimento sistematico dei ricercatori a se stessi in quanto esseri umani». Si tratta, in sostanza, di distinguere fra «scienza» e «rischiaramento (Aufklärung)», fra un modo di pensare che si applica ad «ambiti di realtà sempre più ristretti e sempre più precisamente definiti» e un tentativo di «spiegare cosa significano per noi le nostri crescenti conoscenze scientifiche del mondo – per noi come esseri umani, come moderni contemporanei e come persone individuali». «Il rischiaramento non è di per sé conoscenza scientifica; spiega piuttosto di volta in volta cosa significhi una nuova conoscenza “per noi”, ossia per il “sé” della nostra autocomprensione». In definitiva: nell’«autofraintendimento scientista» oggi dominante, la «congiunzione fra il “noi” e il “mondo”» è proprio ciò che «rischia di andare perduto con il progredire della specializzazione».
Pertanto, se la filosofia intende educarci a fare un uso autonomo della nostra ragione e a plasmare in chiave pratica la nostra esistenza sociale, essa, non rassegnandosi alla «crescente complessità della nostra società», non deve mai assuefarsi alla «sempre maggiore specializzazione della nostra conoscenza del mondo».


Ora, per Habermas, questo riferimento pratico del pensiero filosofico al bisogno di orientamento dell’uomo è «tutt’altro che scontato». Esso affonda le sue radici nel problema relativo all’uso della nostra «libertà razionale»: problema che si ripropone oggi, in un momento in cui la filosofia si accorge che essa può garantire l’indipendenza del suo giudizio solo se si rapporta a se stessa all’insegna di un’autoconsapevolezza storica di lungo respiro. È da qui che deve prendere le mosse una genealogia del pensiero postmetafisico, l’origine del quale risale al preciso momento in cui, con la nascita delle grandi religioni e della filosofia greca, si fa possibile non solo concepire il mondo, ma anche trasformarlo. Ricostruendo il lascito della nostra eredità filosofica, nostro compito è di prendere atto che, se l’emancipazione che ci ha abilitati all’uso della «libertà razionale» è stata sinonimo, per noi, al tempo stesso, di liberazione e di vincolo normativo, è solo comprendendo le ragioni che, a partire dalla Riforma, hanno fatto tramontare la credenza in una giustizia redentrice e salvifica che noi possiamo capire come gli uomini abbiano potuto cooperare reciprocamente, nell’uso pieno e compiuto della loro «libertà razionale» stessa.
Svolgendo la sua genealogia del pensiero postmetafisico nel segno dell’«osmosi concettuale» che si stabilisce tra fede e sapere, Habermas intende così mostrare come la filosofia – in modo complementare rispetto alla formazione di una dogmatica speculativa cristiana – si sia appropriata di contenuti essenziali delle tradizioni religiose e li abbia trasformati in un «sapere capace di fondazione». Ciò ha fatto sì che molti contenuti semantici di origine biblica siano stati convertiti nei concetti fondamentali del pensiero filosofico moderno. Motivo che era stato già al centro del programma filosofico di Adorno, secondo il quale tutti i contenuti teologici dovevano «immigrare nella sfera profana». Ne discende che il Medioevo non corrisponde – come pure vuole la vulgata – a quei mille anni in cui il discorso filosofico sta interamente sotto l’egida della Chiesa cattolica e della sua teologia, ma costituisce il vero e proprio nucleo da cui si irradia il pensiero postmetafisico. E da qui che iniziano a prendere forma, infatti, i due grandi filoni della modernità: lo scientismo empiristico e positivistico, associato al nome di Hume, e il costruttivismo linguistico di taglio intersoggettivo e comunicativo, associato al nome di Kant.
Da sottolineare è che, al momento attuale, pur se ci troviamo al termine di un percorso in cui si è «consumata definitivamente la separazione tra fede e sapere, il dialogo tra filosofia e religione continua a essere fruttuoso, perché i contenuti della tradizione religiosa rappresentano ancora oggi, anche per i non credenti, un prezioso serbatoio non esaurito di intuizioni morali».

Habermas si immerge in quel lungo periodo storico definito da Jaspers come «età assiale» (800-200 a.C.): periodo che rinvia alla «forza civilizzatrice delle grandi religioni mondiali e alla loro persistente vitalità». È in questo preciso momento che si sono formate quelle «immagini del mondo “forti” – religiose e metafisiche – che esercitano la loro influenza ancora ai nostri giorni». Ciò che si verifica è uno «sfondamento cognitivo» dal mito al logos che si compie su scala mondiale. Il modo di vedere il mondo passa dalla molteplicità dei fenomeni superficiali tenuti insieme da una «forma narrativa» all’unità data dalla totalità di un mondo «concepito teoricamente e teologicamente». Nascono una nuova coscienza morale, fondata sul concetto di «responsabilità del singolo», e una nuova coscienza del tempo, la quale va ben oltre la semplice «successione delle generazioni di cui si conserva il ricordo». «[I]l destino individuale si distingue più marcatamente da quello collettivo e acquisisce un significato autonomo». Si creano così le condizioni spirituali per la nascita della filosofia, intesa, quest’ultima, in un senso molto ampio, comprensivo anche dei grandi fondatori delle religioni. Il punto è che, analizzando l’evoluzione delle immagini del mondo religiose e metafisiche, il risalto dato alla rivoluzione che, attraverso di esse, si annuncia non deve indurci a una «unilateralità intellettualistica». E questo perché un pensiero postmetafisico che abbia fatto chiarezza sulla propria genealogia «deve prendere atto che, nelle condizioni di una società planetaria multiculturale, esso può difendere efficacemente l’autonomia della ragione comune a tutti solo se, senza rinnegare la propria origine occidentale, affronta il dibattito interculturale».


Nel contesto di queste riflessioni, trova spazio anche un excursus sull’origine del linguaggio. L’innovazione segnata da esso non sta nell’invio di segni e segnali a individui della stessa specie, perché di questo sono capaci anche i primati, ma nell’uso di simboli dotati di contenuti semantici condivisi intersoggettivamente. E, non appena si instaura la forma della comunicazione simbolicamente mediata, si modifica, insieme con essa, anche la capacità di apprendimento, nel senso che, da un lato, diviene possibile una cooperazione basata sulla divisione del lavoro e, dall’altro, l’apprendimento per imitazione viene integrato e superato dall’apprendimento attraverso gli altri, ossia dalla trasmissione del sapere. La comparsa di gesti pubblici, compresi, in quanto simboli, tanto dal parlante quanto dal destinatario, dà vita così a un intreccio elementare fra una relazione orizzontale fra persone e una verticale con le cose percepite e identificate nel mondo oggettivo. Siamo qui a un’innovazione evolutiva molto importante, in quanto i primati, pur se straordinariamente intelligenti, non instaurando una relazione interpersonale con individui congeneri, non rendono mai possibile una «socializzazione simbolica della loro cognizione». Ciò non vuol dire, ovviamente, che gli scimpanzé, ad esempio, non abbiano sviluppato una ricca vita sociale, ma solo che quel che guida e organizza la loro convivenza non è dato da intenzioni comuni. «Da un punto di vista socio-pragmatico, la conquista evolutiva fondamentale di homo sapiens consiste nella capacità di adattarsi a un compagno in modo che entrambi, nel riferimento alle circostanze oggettive mediate dai gesti, […]
possano […] cooperare».


La comunicazione linguistica evoluta si configura così come quell’ambito in cui, attraverso l’uso di simboli forniti di un medesimo significato, si dischiude il mondo dello “spirito oggettivo”: il mondo in cui vige una prospettiva comune e un sapere intersoggettivamente condiviso. Ed ecco che, sulla base di tutto ciò, si incominciano a formare non solo tradizioni orali, ma anche strutture familiari, pratiche, costumi e usanze, nonché prende corpo un’«ontologia sociale», ossia uno «spazio pubblicamente accessibile di oggetti simbolici». In un successivo momento si dà poi il passaggio dal linguaggio gestuale al linguaggio grammaticale, dall’interazione simbolicamente mediata alla comunicazione linguistica in senso stretto, dove la funzione rappresentazionale del linguaggio si libera dai contesti della cooperazione sociale e dagli imperativi dettati dal coordinamento dell’azione. Il parlante acquista così una distanza oggettivante rispetto al mondo, visto come una totalità di oggetti sui quali sono possibili molteplici affermazioni e, quindi, un’intesa con gli altri partecipanti all’evento comunicativo. «Con la differenziazione proposizionale del linguaggio, per i membri di una comunità linguistica in un certo senso il mondo si allarga».


Ora, grazie alla forma grammaticale della narrazione può farsi finalmente avanti la «domanda totalizzante», nel senso che può essere pensata la genesi del mondo e la formazione dell’ordine cosmico: «si impone la questione cosmogonica di un “Primo”, dell’inizio di tutto». Nascono da qui le grandi “religioni del libro” che si organizzano in dottrine tramandate e dogmatizzate in forma scritta e si profila così quell’orizzonte entro il quale, fino a oggi, tutti noi ancora ci muoviamo.

Foto morhamedufmg, Pixabay | CC0

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Giuseppe D'Acunto

Giuseppe D’Acunto: ha insegnato presso le Facoltà di Filosofia de «La Sapienza» e dell’Università Europea di Roma. È direttore editoriale della rivista di filosofia on-line «Consecutio temporum», condirettore della rivista di filosofia «Azioni Parallele», nonché membro del Comitato Direttivo del «Centro per la Filosofia Italiana»

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