Autore di alcune monografie su Michel Foucault, nonché curatore di diverse sue opere postume, Frédéric Gros, in questo suo libro sulla vergogna (La vergogna è un sentimento rivoluzionario, tr. it. di R. A. Ventura, Nottetempo, Milano 2023, pp. 184), inizia la trattazione affermando che essa «è il sentimento centrale della nostra epoca, il significante di nuove lotte. Non si grida più all’ingiustizia, all’arbitrio, all’ineguaglianza. Si grida alla vergogna». Molto indicativo è così il confronto che viene istituito fra vergogna e senso di colpa. E non è un caso che, mentre la filosofia è più interessata a quest’ultimo, la letteratura lo è, invece, nei confronti dell’altra. In breve, se, da un lato, il senso di colpa indirizza la riflessione verso il problema della responsabilità del male, la vergogna chiama in causa, dall’altro, il peso dello sguardo altrui. «La vergogna sembra sorgere sempre dall’apparizione di un altro, da un suo intervento». Ne discende che l’influsso della vergogna sulla nostra vita è molto più forte di quello della colpa. E ciò anche perché la prima presenta un aspetto più ampio e più complesso della seconda, articolato in molteplici dimensioni: quello morale, quello sociale, quello psicologico e quello politico. «Nella mia stessa vita – scrive l’autore – mi pare di aver provato più spesso vergogna che senso di colpa, e preso più decisioni in base agli imperativi della prima che alle ingiunzioni del secondo».
Gros insiste sulla «potenza immaginativa» veicolata dalla vergogna («ci vuole immaginazione per provare vergogna»), così che bisogna avere «vergogna del mondo» per immaginare che le cose possano andare altrimenti: «vergogna del mondo» di cui aveva già parlato Primo Levi e che è proprio ciò che favorisce in noi la forza di disubbidire, di non rassegnarci al peggio e di ribellarci. Infatti, poiché nella vergogna c’è un misto d’ira e di tristezza, tutto sta nel non assecondare gli eccessi dell’una e dell’altra, ossia nel prosciugarla da ogni impulso distruttivo e da ogni rassegnato ripiegamento su se stessi, così da farle prendere la forma, più compiuta, della rabbia. E la vergogna come stato d’animo che alimenta il gesto rivoluzionario è un qualcosa che viene inflitto, piuttosto che subito. Nel senso che essa non ci esclude dalla nostra cerchia normale di appartenenza, ma si accende quando noi siamo spettatori delle azioni censurabili di qualcun altro.
Oggi, tanto noi siamo abituati a vedere nella vergogna una ferita da guarire che facciamo fatica a immaginarla come una forma di perfezione morale, ossia come un principio che, imponendoci un certo riserbo, ci prescrive l’ingiunzione del limite. Ma, invece, era proprio così presso i Greci. In Platone, ad esempio, si può parlare di una vera e propria etica della vergogna, dal momento che essa «rende possibile il vivere-assieme (Protagora), ricapitola la saggezza (Carmide), dà coraggio (Simposio)». Per non parlare poi di Confucio, anche a proposito del quale si può parlare di un’etica della vergogna. Per lui, la pietà, il rispetto e la modestia sono virtù che «condividono una medesima tonalità fondamentale: pudore, contegno, riserbo – il senso orientale della vergogna», la quale non è così una perfezione morale tra le altre, ma il principio che sta a fondamento di tutte.
Dicevamo di come la vergogna sia stata oggetto di frequentazione, soprattutto, da parte della letteratura, cosa per cui Gros, in questa sua opera, si mantiene in un dialogo costante con gli scrittori, quali, fra i classici: Racine, Balzac, Conrad, Zola, Maupassant. E fra i contemporanei: Albert Camus, Jean Genet, Primo Levi, in precedenza già menzionato, Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura nel 2022, autrice di un romanzo intitolato proprio La vergogna (1997), John M. Coetzee, anche lui premio Nobel nel 2003 e anche lui autore di un romanzo intitolato Vergogna (1999), Virginie Despentes e James A. Baldwin. In Ernaux, in particolare, la vergogna si presenta come un qualcosa che ci permette di ricordare, così che essa le appare come un dono somministrato dalla memoria. Tutta la sua opera è, in un certo senso, un immenso romanzo sulla vergogna, dove a venire in primo piano è, soprattutto, il profilo sociale di essa. «La vergogna sociale permette di scoprire una dimensione della società […] come sistema di giudizio, organizzazione gerarchica, potenza di stigmatizzazione, violenza delle esclusioni simboliche, esperienza ripetuta di umiliazione e di vergogna». Scrutando entro la vergogna, ella vi trova una rabbia che è una forma di sofferenza, in quanto è una rabbia indirizzata, innanzi tutto, contro noi stessi. I miei libri sono un modo per «vendicare la mia razza», per «vendicare il mio sesso», ha detto ricevendo il Premio Nobel a Stoccolma. In lei, in sostanza, la scrittura è stata una via di salvezza, in quanto, facendole vincere la vergogna, le ha consentito così di superare l’offesa e l’umiliazione che essa comporta.
Come esempio di una radicalità e di un anticonformismo assoluti, tali da imprimere una torsione compiuta al senso della vergogna, Gros chiama in causa la figura dei cinici, i quali, assumendo una posizione pubblicamente provocatoria, costringono così gli altri, i conformisti, a provare vergogna. Poi sarà il turno di san Francesco e, più in avanti ancora, di Gandhi, protagonisti eccentrici di un «rovesciamento sociale» che fa della povertà «un principio di vergogna per la ricchezza».
In conclusione, fra le due versioni della vergogna, l’una che asseconda l’obbedienza e l’altra che funge da scintilla di rabbia, Gros opta chiaramente per la seconda. E ciò in linea con un pensiero di Marx che, affiorando fin dal titolo, fa da filo conduttore a tutta la trattazione. Eccolo: «La vergogna è già una rivoluzione; è […] una sorta di ira contro di sé. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccare il balzo».