Troviamo Antonio De Simone là dove lo avevamo lasciato. Ci aveva incantato per mappe e sentieri, nell’immane potenza del negativo, per farci vedere l’eredità del presente: interrogare il senso e la storia dal particolare, dal frammento, da ogni singolo io. E ogni alzata di sguardo, ogni volo, fa problema. La sorpresa di questo ultimo monumentale lavoro è questa. Il movimento che la filosofia abitualmente fa è da Hegel ai contemporanei. Dall’unità del sistema alla ricchezza delle singole correlazioni irrelate. Perché, si dice, bisogna salvare il finito. De Simone fa il movimento inverso. Parte dal contemporaneo e torna verso Hegel. Come a dire: è Hegel il nostro futuro. È lui la soluzione alle incertezze, alle mancate chiusure di significato. Si può dire ancora qualcosa su Hegel? si chiedeva Remo Bodei. Perché la sensazione è che ormai si sia detto tutto. Non è vero. Riproporre l’attualità del filosofo più grande, cercarne le eredità in un presente che sente tutta la sua stanchezza, è già una proposta avvincente.
Si dovrebbe partire dal titolo. Lo spirito del mondo. Per una uscita programmata dall’editore, Mimesis, il 5 maggio. E si dovrebbe partire dalla copertina. Marie-Jeanne Roland de la Platière, ossia Manon Philipon, la Musa dei girondini. Dai suoi salotti colti e irrequieti si è diffuso l’agitarsi della Rivoluzione, gli ideali dei philosophes sono diventati verbo, discussione, e quindi vita, azione, storia. Perché l’ideale non è qualcosa di astratto, l’ideale è qualcosa che il singolo soggetto rende concreto con il suo fare.
Nel suo penultimo libro ci eravamo lasciati su note amare. Il negativo è ferita, ma è anche l’anima del reale. Non è dall’ombra che viene la luce? Pensiamo a Caravaggio, a Rembrandt, dice De Simone citando Esposito, “perfino quella che avvertiamo come la massima negatività – la mortalità – è in qualche modo necessaria al respiro della vita?”. Ma in Hegel il negativo è un momento di un divenire, di un movimento. Hai sempre a che fare con qualcosa che cambia. È così anche nella Tragedia. Si parte da uno stato generale del mondo e su una situazione di conflitto si agisce. Il monologo nella tragedia moderna sostituisce il coro della tragedia greca ed è la voce filosofica che elogia o deplora la contrapposizione in scena. «Gli attori principali ascoltano la propria voce interiore in solitudine prima di fare una scelta decisiva o dopo averne affrontato una fatale: stanno ponderando tra un sì e un no, stanno riflettendo sulla vita, sulla natura e sul destino della condizione umana alla presenza stessa del pubblico, davanti ai nostri occhi». I personaggi calcano la scena: in realtà “sul palcoscenico del teatro ci sono quattro palcoscenici: il palcoscenico della storia, quello della singola persona, quello della politico e quello della condizione umana (il palcoscenico esistenziale)”. Pluralità dell’umano. Àgnes Heller questo lo sottolinea con convinzione: il pàthos di un poeta lirico può essere soggettivo, ma il pàthos di un attore tragico deve essere sia oggettivo sia soggettivo. La tragedia è sempre un dramma della sostanza, delle opposte forze da cui è fatalmente costituita la vita etica. «La commedia, al contrario, è la dissoluzione della sostanza nella soggettività, dove il fatto si dissolve nella contingenza e nella necessità si svuota la licenziosità».
La lettura hegeliana di Kojève ha rimesso l’uomo, il soggetto, al centro della storia. Davanti a lui c’è un desiderio. E per uomo non intendiamo un essere generico, ma l’uomo sociale, politico, il cittadino-lavoratore. «Egli commenta e interpreta la Fenomenologia di Hegel perché ritiene che il filosofo di Stoccarda abbia colto la “finitudine radicale” dell’uomo, in un modo che è possibile anche ricollegare alla lettura heideggeriana dell’uomo come ‘essere-per-la-morte’. Dunque l’uomo-di-Kojève è un uomo che appartiene al mondo storico, che lotta e lavora per superare il “rischio” della vita e l’angoscia della morte: entrambe caratterizzano la sua esistenza umana». Kojève lo dice chiaramente: «La Fenomenologia di Hegel è dunque ‘esistenziale’ come quella di Heidegger. Ed essa deve servire come base per un’ontologia». «Pensare la negatività per comprendere la soggettività significa hegelianamente “pensare l’essenza del tempo come Divenire”, […] cioè la storia, senza però dimenticare che la soddisfazione del desiderio è anche “una sorte di morte in vita” perché l’appagamento è sia apertura che compiutezza della vita». Le Fenomenologia dello Spirito è allora un “avventuroso racconto” che si traduce in un “originale pellegrinaggio dello spirito” che mette a dura prova l’ “immaginazione ontologica”. Il personaggio della scena è presente-assente, in divenire, è il soggetto umano, un viaggiatore che affascina e affabula in un itinerario di “formazione filosofica”. Non è un racconto: è il viaggio. Il protagonista “dimostra di avere un bravo ‘direttore di scena’, cioè un regista che è in grado di gestire ogni sua metamorfosi, assicurandogli l’eventuale sopravvivenza a ogni passaggio. Il desiderio allora prende gli abiti di una coscienza in esilio, che senta di dover tornare a casa, il Sapere Assoluto. «Il desiderio di vivere si manifesta sempre come una lotta implicita contro i “sentieri di morte”, così come “dominio” e “sottomissione” sono metafore della morte in vita, ovvero della “presenza delle contraddizioni che ci trattengono dal desiderare sufficientemente la vita”. Nella sua rappresentazione scenica sin qui drammatizzata, la dialettica di signore e servo traduce specularmente una generale lotta-con-il-problema-della-vita e traduce il fatto del desiderio quale struttura nel contempo riflessiva e intenzionale». Noi veniamo ‘riconosciuti’ non per la forma che assumiamo nel mondo, cioè per i nostri comportamenti ma per le forme che diamo al mondo (per le nostre opere). «I nostri corpi non sono espressioni transeunti della nostra libertà, mentre le nostre opere proteggono tale libertà proprio grazie alla loro struttura. Il processo di riconoscimento reciproco ci disvela, dunque, come “esseri desideranti”». Il sipario cala sulla scena, mentre lo sguardo dell’Altro-che-ci-riconosce e ci-dà-conferma-di-noi-stessi “non smette di drammatizzare ,l’inquieto vincolo dell’umano”. Drammaturgia hegeliana.
Per Habermas, Hegel è il primo grande autore della modernità. Cioè il primo pensatore per cui la modernità si è fatta oggetto di riflessione. La società civile per Hegel caratterizza la “condizione moderna attraverso i fenomeni dell’economia capitalistica del lavoro, dell’industria, delle professioni liberali, del mercato, della distribuzione dei beni, della libertà economica, dell’individualismo borghese, delle classi sociali e del rapporto tra povertà e ricchezza”. Per Hegel gli individui che si introducono nella “società civile” attraverso le moderne regole del mercato, “dispongono di uno spazio sociale nel quale il perseguimento dei propri interessi privati […] può avere libero gioco ed essere legittimato come un valore di per sé”. La società civile, per Hegel lettore di Adam Smith, “offre lo spettacolo della miseria e della corruzione fisica ed etica comune a entrambe”. Chi è ‘borghese’ non è ancora un cittadino, perché ancora dedito alla ricerca del suo interesse privato, dell’utile, del personale, “pronto a piegare il proprio volere ai desideri altrui perché sa che la propria soddisfazione dipende dal fatto che gli altri trovino in lui qualcosa che a sua volta soddisfi i loro interessi”. È la dimora dell’homo oeconomicus, perimetrata come assenza di ogni contenuto etico, un regno senza regole, dove l’unica regola è la sopraffazione della particolarità. Un’accidentalità, un arbitrario capriccioso in cui si è sempre soggetti al sopruso. La società civile realizza sì l’uguaglianza ma è la sfera del diritto che la manifesta in modo riflesso col suo sistema normativo. Il diritto astratto è il sapersi da parte della società, la sua autocoscienza. Il diritto ha per oggetto la “persona astratta” ovvero ciò che è comune a tutti gli uomini: nella persona astratta tutti gli uomini sono compresi come identici. Eccolo l’Hegel repubblicano, ecco l’etica di Mazzini: la libertà passa dalla legge, il diritto dal dovere.
Dilthey, Gadamer, Norberto Bobbio (metto le mani avanti: ha un nome che è una trappola per tutti i correttori automatici, per i quali si chiama Roberto e non ci sono santi!) e le sue lezioni torinesi ci consentono di arrivare al cuore del problema: Hegel e la Rivoluzione Francese. Non solo Hegel paragona la Rivoluzione quale grande mutamento “all’aurora, al canto del gallo, che annuncia il nuovo giorno” ma afferma, come sappiamo, che la filosofia è come la nottola di Minerva che “inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”: mentre la Rivoluzione “viene all’inizio, la filosofia viene alla fine, l’una è l’aurora, l’altra è il crepuscolo”. Gli anni della rivoluzione francese, annota Bobbio, sono più o meno gli stessi in cui avviene quella filosofica. Durante la Rivoluzione non ci sono in Francia filosofi. La grande stagione era finita con Voltaire, con Rousseau. Ormai i pensatori stanno in Germania. Kant è l’autore della rivoluzione copernicana. Poi ci sono stati almeno Fichte, Reinhold, e quindi Hegel. Se la Francia è la domanda, il guanto di sfida, come riorganizzare lo Stato e la società con una base razionale, così che le istituzioni potessero essere in armonia con la libertà e gli interessi del singolo, la Germania è la risposta. «Le idee della Rivoluzione, pertanto, costituirono il cuore dei sistemi idealistici e determinarono, in grande misura, la loro struttura concettuale. […] Da questo momento in poi, la lotta contro la natura e contro l’organizzazione sociale [esistente] doveva avere per guida il progresso dell’uomo nella conoscenza. Il mondo doveva essere organizzato secondo la ragione». Eppure, come ha pure evidenziato Habermas “la filosofia non può insegnare al mondo come deve essere: nel suo concetto si riflette soltanto la realtà come è. «Essa non può indirizzarsi criticamente contro quest’ultima, ma soltanto contro le astrazioni che si frappongono tra la ragione divenuta oggettiva e la nostra coscienza soggettiva. La filosofia […] non offre alcun filo conduttore per una prassi rivoluzionaria, mentre dà invece una lezione a quanti falsamente si servono di essa quale guida dell’azione politica». Ecco perché Bobbio può dire: «Hegel è un filosofo della guerra, non è un filosofo della rivoluzione». La guerra “è come il vento sopra la palude, che impedisce all’acqua di stagnare”. Se i Lineamenti della filosofia del diritto sono un tentativo di capire il presente, le lezioni sulla filosofia della storia sono piuttosto lo sforzo di capire “se nella storia ci sia una razionalità immanente, per cui si possa dire che la storia abbia un senso, e quale possa essere il senso della storia”. «Soltanto su questo presupposto si può fare filosofia della storia, il che comporta una concezione della storia “con una sua intima razionalità”, per cui la Rivoluzione, nel senso che tale termine assume dopo la Rivoluzione francese, in questa storia razionale di Hegel non ha posto».
Così, dopo considerazioni sul tempo, e sul rapporto tra Politica e Religione, anche secondo la lettura di Geminello Preterossi, mai citato abbastanza, cala il sipario, quello hegeliano, mentre invece il theatrum philosophicum continua a mettere in scena una genealogia del contemporaneo e del suo destino i cui attori “calcano i sentieri del mondo dello spirito, circondati da abissi e insediandosi nella ‘stazione del presente’, alla ricerca del senso che manca”.
Foto La Presa della Bastiglia | CC0