Un’offensiva asimmetrica, ibrida, inedita quella che stanno compiendo le principali autocrazie contro l’Occidente e i suoi alleati. Un assedio che coinvolge i principali domini tradizionali (cielo, mare e terra) e quelli più recenti (dal cyber allo spazio) tramite l’utilizzo di vecchi e nuovi strumenti – dalla disinformazione agli attacchi hacker passando per golpe militari e offensive napoleoniche – con un unico obiettivo: indebolire e disarticolare il fronte delle democrazie e dei propri partner. Una sfida sottile, complessa e imprevedibile che coinvolge – senza però una regia univoca – Iran, Cina, Russia e i loro partner contro l’Europa, gli Usa e i propri alleati che è stata brillantemente ricostruita e disvelata da Maurizio Molinari nel suo ultimo “La nuova guerra contro le democrazie: Così le autocrazie vogliono stravolgere l’ordine internazionale”(Rizzoli). Un libro-miniera che contiene al suo interno un breviario concettuale, cartografico e giornalistico dei grandi nodi questa nuova guerra ibrida tra democrazie e autocrazie. Affrontandone i principali scenari, episodi e protagonisti con un approccio divulgativo e rigoroso, plastico e sistemico. Un testo in cui Maurizio Molinari, già direttore di Repubblica e de La Stampa, acuto saggista e editorialista internazionale, ci porta in un personale “Atlante ideologico” di roncheyiana memoria, che (sulla scia dei suoi testi precedenti come “Mediterraneo conteso. Perché l’Occidente e i suoi rivali ne hanno bisogno”) ci porta in un groviglio internazionale che va dai Balcani a Taiwan dalla California a Gerusalemme. Rivelando con uno stile chiaro ed efficace il nuovo “grande gioco” che ossessiona il nostro tempo. Per meglio chiarire la natura e i caratteri di questa nuova guerra asimmetrica intercontinentale a pezzi abbiamo intervistato Maurizio Molinari.
-Quale è “La nuova guerra contro le democrazie”? E come “le autocrazie vogliono stravolgere l’ordine internazionale “?
Si tratta di un assedio ibrido da parte delle autocrazie contro le democrazie occidentali: una nuova tipologia di conflitto nel lungo termine che si sviluppa su più fronti e tramite una moltitudine di modalità. Ciò che accomuna la guerra in Ucraina, il conflitto in Medio Oriente e le fibrillazioni militari lungo gli stretti di Taiwan è, infatti, il fatto di essere tasselli di un unico mosaico. Quello della grande guerra d’attrito che Russia, Iran e Cina stanno combattendo, in maniera asimmetrica, contro le democrazie, al fine di metterle sulla difensiva, indebolirle e farle implodere per riuscire a ridefinire l’architettura internazionale di sicurezza a loro vantaggio.
-Quali sono i caratteri di questo assedio ibrido?
Essenzialmente l’utilizzo di varie e differenti modalità nella loro offensiva contro le democrazie.
La Russia, ad esempio, combatte in Ucraina in maniera tradizionale con una aggressione di tipo napoleonico mentre allo stesso tempo in Sahel utilizza golpe militari, armi non convenzionali e strutture di disinformazione. L’Iran, invece, nel suo attacco ad Israele predilige una via mista che impiega sia tattiche di assalti tradizionali (ad esempio tramite gli Houthi), che tattiche inedite come il massiccio utilizzo di droni.
-C’è una regia condivisa o una convergenza di fondo in questo assalto?
La premessa necessaria per comprendere perché ci troviamo immersi in una stagione di conflitti apparentemente senza possibile conclusione è la volontà da parte delle più importanti e meglio armate autocrazie e dittature di stravolgere l’ordine mondiale uscito dalla Guerra fredda. Mosca, Pechino e Teheran – assieme a un gruppo ristretto ma agguerrito di Paesi e milizie alleate – vogliono rovesciare l’equilibrio di sicurezza globale a loro favore, sulla base dei propri, peculiari, interessi nazionali.
Questo non significa che Vladimir Putin, Xi Jinping e Ali Khamenei sono stretti alleati, né tantomeno portatori di una comune visione del mondo, bensì che hanno la coincidente volontà di porre fine alla prevalenza geopolitica dei Paesi democratici. E poiché non hanno ancora gli strumenti economici per riuscirci, sono impegnati in campagne asimmetriche – condotte con le più diverse armi e tattiche nella realtà fisica come in quella digitale – il cui fine è far implodere l’avversario sotto il peso crescente di aggressioni esterne, fratture interne e conflittualità digitali.
Si tratta, quindi, della più formidabile sfida che le democrazie si trovano ad affrontare dall’inizio del XXI secolo. E l’emersione di populismi e nazionalismi nel mondo occidentale certamente non favorisce una risposta forte e coesa del campo democratico a questo assedio.
-Come questa offensiva si sta inverando nello scenario africano?
Sullo scenario africano insistono diverse pressioni e influenze delle autocrazie a fronte di una sostanziale ritirata delle democrazie. In Africa noi abbiamo, infatti, la Russia che ha compiuto la sua offensiva su più fronti: in Libia tramite delle operazioni militari tradizionali con l’intervento a Bengasi a sostegno di Haftar ; in Mali, Niger e Burkina Faso e nella Repubblica centroafricana dove – tramite l’azione della brigata Wagner – Mosca è riuscita nell’obiettivo di destabilizzare il Sahel. La Cina, invece, ha una tipologia di penetrazione più commerciale che punta alla conquista di miniere, terre rare, infrastrutture e flussi commerciali. Quindi se la penetrazione russa è orientata a logiche più militari, quella cinese è, invece, più mercantilistica. Ma non è tutto. Tanto Pechino che Mosca hanno sviluppato e rafforzato profondamente la dimensione del soft power, fomentando tramite l’utilizzo di radio, agenzie di stampa e altri media un clima antioccidentale basato su forti rigurgiti anticoloniali.
-Con quali conseguenze?
Il caso più clamoroso di queste dinamiche è quanto è avvenuto in Niger. Uno stato chiave, già legato all’Occidente, che nell’arco di pochi mesi ha siglato un patto di difesa con la Russia di Putin. Oppure pensiamo al Senegal, storica roccaforte francese, da cui Macron ha dovuto ritirare recentemente i contingenti di Parigi. Ebbene, in Africa mentre le democrazie giocano in difesa le autocrazie giocano in attacco.
Generando un clima di stallo e crisi di cui sta approfittando ampiamente la Turchia. La quale è non a caso la nazione che ha aperto più nuove ambasciate nel continente africano.
-Secondo lei le potenze regionali come India e Turchia stanno approfittando di questo scontro?
La guerra delle autocrazie alle democrazie crea una situazione di incertezza e instabilità. Dove in nessuno scenario ci sono le condizioni in grado di favorire in maniera chiara l’uno o l’altro schieramento. Questa situazione di stallo consente a vari paesi di comportarsi come potenze regionali che possono, di volta in volta, schierarsi da una parte o dall’altra. I due casi più evidenti, in questo senso, sono India e Turchia.
-Concentriamoci sulle logiche di Ankara…
Il caso turco è estremamente complesso. La Turchia è, infatti, guidata da un presidente che vuole costruire una nuova sfera di influenza neo-ottomana. E con questo obiettivo il governo turco è intervenuto militarmente in Libia, oltre ad essere riuscito – tramite i ribelli di Aleppo – ad assumere il controllo della Siria. Bisogna ricordare inoltre che Erdogan guida un partito come l’AKP i cui riferimenti ideologici sono gli stessi dei Fratelli Musulmani. E nonostante è giusto ricordare che ci sono delle specificità all’interno del fronte dei Fratelli Musulmani che variano da paese a paese, è importante ricordare che tutte le componenti affiliate a questo movimento (in Egitto, Arabia Saudita, ecc) vedono in Erdogan un punto di riferimento per il rafforzamento dell’islamismo politico. Basti pensare al fatto che il disegno di Erdogan ha un suo alleato di riferimento nel Qatar… La Turchia, che ha una proiezione molto forte tanto in Asia che in Africa, sta puntando quindi a diventare il principale paese leader del fronte sunnita. Cavalcando sia il successo ottenuto in Siria, che i consensi maturati nel mondo arabo che gli derivano dal suo sostegno ad Hamas. Per tali ragioni Ankara si pone oggi come il principale rivale dell’Arabia Saudita in Medio oriente. In questo senso il conflitto e le rivalità tra Fratelli musulmani e monarchie del Golfo, e quindi tra Turchia e Arabia Saudita non è altro che il conflitto per la leadership dell’islamismo politico sunnita. Ed è evidente che i Fratelli Musulmani per la loro ideologia antimoderna e antioccidentale, che risale alla predicazione di Hasan al-Banna, non possono che essere radicalmente ostili a Israele e alla sua esistenza. Non dimentichiamoci, del resto, che Hamas aderisce ai Fratelli Musulmani…
–Come è cambiata la “nuova guerra delle autocrazie” con l’elezione di Trump?
L’aspetto più interessante portato dalla nuova amministrazione statunitense è che Trump ha deciso di rilanciare la leadership americana a livello globale con un metodo diverso da quello di tutti i precedenti presidenti degli ultimi decenni ed in special modo di Biden. Se Biden combatteva contro le autocrazie con la linea tipica degli USA dal 1945 in poi, seguendo la via dell’invio delle armi agli alleati e delle operazioni di intelligence senza esporsi direttamente, Trump sostiene, invece, che lo strumento principe della proiezione del potere americano nel mondo non deve essere più la forza militare, ma il primato economico. Dunque non i soldati, ma innanzitutto la forza commerciale, il potere del dollaro e i dazi. Tale visione punta, quindi, a conciliare le proiezioni statunitensi con una opinione americana contraria a quelle che Trump definisce le cosiddette “Guerre infinite”. Si tratta di una strategia molto interessante perché mentre sul piano militare Cina e Russia ad oggi sono in grado di rivaleggiare con gli USA in alcuni scenari, sul piano economico, invece, gli Stati Uniti non hanno rivali. Come non ha rivali il potere del dollaro. Le prossime settimane ci diranno, quindi, quanto questa svolta di Trump riuscirà davvero a costituire la risposta ibrida alla sfida delle autocrazie. Anche se la velocità con cui sono stati raggiunti il cessate il fuoco a Gaza (oltre che nel Libano del sud) e con la quale l’amministrazione Trump sta gestendo la dimensione della guerra in Ucraina con Putin, lasciano capire quanto il Potus sia disposto ad accelerare nella sua sfida alle autocrazie.
-Oggi come si pone l’Italia nel campo di battaglia tra autocrazie e democrazie?
L’Italia è saldamente nel campo delle democrazie e va dato atto del nostro paese di non aver mai esitato né nel sostegno all’Ucraina né nel sostegno a Israele. Ora il punto interrogativo è come l’Italia si posizionerà nelle offensive dei dazi (sia contro i rivali che contro gli alleati) per ripristinare l’egemonia americana a livello globale. Noi non sappiamo quali scelte farà il governo. Ma sicuramente Giorgia Meloni ha un rapporto molto stretto con il presidente Trump a pari del presidente argentino Milei. E questo può dare all’Italia la potenzialità di favorire un’intesa tra Stati Uniti e Unione Europea per consentire alle democrazie di lavorare insieme verso un orizzonte comune.
–Quali saranno le conseguenze del negoziato Usa-Russia per porre fine alla guerra in Ucraina?
La priorità per le democrazie è che l’aggressione russa non venga premiata in alcun modo. Se dunque vi sarà un’intesa sul cessate il fuoco è importante che si basi sulla riaffermazione dell’indipendenza e della sovranità dell’Ucraina. Ed è altresì cruciale che Usa ed alleati europei riescano a definire una posizione comune, su questo terreno come in Medio Oriente, perché nulla è più importante della solidità della partnership atlantica per garantire la sicurezza collettiva.