Se di soggetto occorre occuparsi, si tratta di studiare come il soggetto entra nella storia, nella modernità. Perché noi abitualmente crediamo che la soggettività sia qualcosa che semplicemente c’è stata consegnata. In realtà alla sua definizione noi siamo arrivati. Il soggetto per come lo intendiamo oggi, un soggetto autocosciente, che si sa individuo, cittadino che esige riconoscimento, che esige diritti, non esisteva nemmeno in Grecia. La nostra cultura lo ha acquisito, lo ha definito, precisato, nel corso di uno sviluppo. Lo si chiama Spirito, è il Geist, il Geist è la consapevolezza che un’epoca storica ha di sé. E lo spirito matura, evolve, non sta mai fermo, soffia dove vuole. Se è compito del soggetto rischiararsi spirito, e se questo progressivo affinamento lo si chiama Bildung, cultura, formazione, possiamo dire che la cultura del soggetto è qualcosa che nella storia è passata gradualmente in tappe di definizione via via sempre più ricche. “Il soggetto è”, questa è stata una tappa, ma non necessariamente sa quel che è.
La letteratura beninteso è una forma rappresentativa di verità concettuali. Noi nelle opere letterarie troviamo riflesso lo spirito di un’epoca. C’è un’opera significativa ed è un’opera di Melville del 1853 che si chiama Bartleby lo scrivano. Il protagonista non fa che ripetere lo stesso monotono gesto per tutta la giornata. E solo quello, perché si rifiuta di fare altro a lavoro, opponendo un generico: “no, preferirei di no”. Dinanzi a tutti gli ordini c’è questa formula ossequiosa ma decisa a non aderire a modelli, schemi sociali che non siano la meccanica adesione al compito per cui viene pagato. La narrazione trasla questo rifiuto di collaborazione in altri ambiti. Così lo scrivano continua a dire di no, sempre in modo garbato, con devoto rispetto. Non è più tra la massa degli uomini che obbediscono, si dice secondo una lettura politica immediata. Fino ad esiti paradossali, che spezzano consolidati accondiscendimenti. Fino ad essere licenziato addirittura, per infine lasciarsi morire di inedia. Perché persino in carcere “preferisce di no, preferisce non mangiare”. Ora, Bartleby è da sempre attenzionato dal mondo della filosofia, penso a Deleuze o Agàmben. È un no quello di Bartleby all’incompiutezza, all’ingiustizia della società? Ci aiuta la riflessione del suo avvocato che in chiusura del racconto ipotizza che il comportamento bizzarro del suo assistito sia stato causato dall’ufficio presso il quale lavorava, l’ufficio delle lettere smarrite, per cui la direzione della sua vita si sarebbe smarrita maneggiando quelle lettere senza più un destino. Eccola la chiave. Il soggetto della modernità non ha un destino, ha un mittente ma non è chiaro chi sia il destinatario. Quello che si è frantumato è un orizzonte di senso, che dia pieno significato al nostro esistere.
Ho citato Melville, perché inserisco Kafka, che è nato circa tre decenni dopo, in questo contesto, e andando in parziale disaccordo con la lettura di Deleuze e Guattarì, l’alienazione di Kafka è l’alienazione esistenziale di chi ha perduto ogni speranza nella ricerca di una definizione compiuta dell’umano. Giovanna Canzano in suo importante lavoro, ben documentato, con una bibliografia abbastanza ricca, e che Solfanelli ha recentemente ripubblicato in una edizione ampliata rispetto alla prima, ci dice che nessuna interpretazione dell’opera di Kafka è possibile se non si tiene presente il più ampio contesto dei temi e delle questioni dell’ebraismo europeo moderno. Il tema esistenziale è poggiato su una debolezza psicologica, generata dalla biografia come spesso avviene. Ma la precarietà dell’equilibrio psicologico, ci ricorda l’autrice, era in Kafka soprattutto dovuta alla difficoltà di contrapporre una forte identità ebraica alla dissoluzione dell’impero asburgico. La consapevolezza che in questa difficoltà gli intellettuali ebrei scontavano il prezzo della secolarizzazione e dell’assimilazioni è alla base dell’angoscia kafkiana. La solitudine del soggetto è radicalizzata dal suo tentativo di superarla. E il tormento nasce da un’osservazione di Massimo Cacciari che Giovanna Canzano cita nelle sue conclusioni: «Ogni scopo, ogni meta, sono, nei suoi invalicabili limiti, inesorabilmente disperati».
La lettura esistenziale è una delle quattro letture diverse con cui normalmente ci si approccia alle opere di Kafka, con quelle teologiche, psicoanalitiche e socio-politiche. C’è chi dice urgente, come ci ricorda anche questo saggio, rivendicare l’autonomia del suo mondo poetico. Quindi proporre una lettura pura nelle quale il lettore non dovrebbe fare altro che affidarsi alle immagini del poeta e abbandonarsi completamente alla loro magia senza distruggere la loro irripetibile unicità in formule astratte e concettuali. Certo la lettura immediata e irriflessiva è una lettura ingenua, perché come abbiamo detto in premessa è sempre impossibile immaginare che un soggetto non ci sia dato in una relazione, in una società, in una cultura. Le pagine di Kafka ci danno l’esasperazione di un mondo frammentato, fatto a pezzettini e bocconi, cito un’intervista dell’autrice, e anche la memoria collettiva degli ebrei è la quinta scenica, è il telos, cioè la cronologia che ci spiega il nostro destino.
La vita è adrenalina, la vita è chimica. Senza chimica diventiamo oggetti, diventiamo cose posate nel mondo. Persino chi “preferisce dire di no”, persino la follia va vista nel suo senso più radicale, profondo, umano. È il grido disperato delle cose che non vogliono più essere cose.
Nella foto, presso l’aula del senato dell’Istituto Santa Maria in Aquiro, la presentazione su iniziativa del sen. Maurizio Gasparri, con Giovanna Canzano, Enrico Molinaro, Antonio Deganutti coordinati da Maria Gravano