«Dio, Patria e Famiglia» (rigorosamente scritto con le iniziali maiuscole): motto solenne utilizzabile in qualsiasi stagione o vera e propria “bestemmia” che rischia di far ripiombare l’Italia nel peggiore dei passati? Eredità di un periodo storico illuminato o esaltazione di valori piegati a una arbitraria lettura fascista?
Come scriveva Montesquieu nelle Lettere persiane, «finché non si son letti tutti i libri antichi, non si ha alcuna ragione di preferire quelli nuovi». E, allora, prima di farci abbacinare dalle arbitrarie ricostruzioni suggerite in questi giorni dai politici, forse si dovrebbe perdere un po’ di tempo tra le fonti che la storia ci ha consegnato. Solo una attenta analisi di ciò che è stato scritto nel passato può consentirci di ottenere qualche risposta, nel tentativo di sgomberare il campo dagli equivoci, una volta per tutte, se possibile.
Partiamo da un approccio legato alla storiografia ufficiale. Quel motto sul quale si sono aperti così tanti dibattiti viene ricondotto ai valori propugnati da Giuseppe Mazzini e presenti nell’incipit del suo testamento spirituale I Doveri dell’Uomo pubblicato nel 1860. Tuttavia, a quanto mi risulta, non fu il pensatore genovese a coniare la massima che tanto successo ebbe nel corso del tempo e che venne utilizzata anche in ambiti estranei a quelli frequentati dai mazziniani e con sensi (a volte) profondamente diversi da quelli attribuiti ai valori predicati dal Profeta dell’unità nazionale. Leggendo lo scritto di Mazzini, il progresso italiano era messo in pericolo dal machiavellismo e dal materialismo. Il primo avrebbe allontanato dalla verità, mentre il secondo avrebbe inevitabilmente trascinato gli individui verso l’egoismo e l’anarchia. Pervaso da un forte sentimento giusnaturalista e da una lettura laica e universale dei princìpi cristiani, Mazzini cercò di spostare l’attenzione sui doveri, il cui riconoscimento veniva ritenuto prodromico all’attribuzione dei diritti, con l’obiettivo di trovare un “principio educatore superiore” in grado di guidare “gli uomini al meglio”, insegnando loro la costanza nel sacrificio e vincolandoli “ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti
Parole potenti quelle di Mazzini, capaci di svegliare le coscienze e di costruire una società moderna che poggiasse su valori universali. Ma Mazzini non fu l’unico a richiamare quei concetti alla base di una società evoluta. È sufficiente leggere testi ottocenteschi per rinvenire il sintagma oggetto di attenzione in questi giorni. Per esempio, Ippolito Castille, sempre nel 1860, individuava in “Dio, Patria e Famiglia” le tre “grandi parole sociali”, emanazione della stessa «divina Provvidenza».
Il riconoscimento di valori su cui potesse poggiare la società veniva, a vario titolo, utilizzato da cattolici, repubblicani liberali e progressisti, nel tentativo di legittimare il pensiero politico democratico, ancora molto giovane. Augusto Conti (che era cattolico ed estimatore di Mazzini), invertendo l’ordine delle parole presenti nel motto, scrisse il libro “Famiglia, Patria e Dio”, in cui raccoglieva testi sui “tre amori” di ogni essere umano.
Anche il diritto si occupò di questa triade della società civile. Nel 1895 la rivista giuridica “La Cassazione Unica” dedicò un approfondimento alle associazioni anarchiche, colpevoli di sovvertire l’ordine delle cose, nel tentativo di sostituire “Dio, Patria e Famiglia” con il male e l’odio. Durante il ventennio in camicia nera molti furono i riferimenti ai miti del passato. E, un po’ come avviene nella pesca a strascico, nella rete finirono anche gli incolpevoli Mazzini e Garibaldi, oltre a santi, patrioti, letterati e inventori. Del resto, il regime – a suon di leggi – riuscì a riscrivere la storia. Emblematico è il caso del corso d’acqua che cambiò le sorti di Roma e del mondo nel 49 avanti Cristo: nel 1933 Mussolini decise che quel nome dovesse essere attribuito al modesto Fiumicino, ponendo così (apparentemente) fine alle dispute sul luogo in cui Giulio Cesare avesse pronunciato la famosa frase attribuitagli da Svetonio.
Il fascismo cercò di mettere le mani su tutte le stagioni storiche e su tutte le tradizioni, anche antitetiche fra loro, che potessero dar forza all’italica superiorità. La dittatura si appropriò di motti particolarmente efficaci e, con l’occasione, cercò di impossessarsi della figura di Mazzini, spacciandolo come il pensatore che aveva profetizzato la rinascita di un impero sotto la guida di Roma. Il motto “Dio, Patria e Famiglia” ritornò di moda e, anzi, fu rilanciato prepotentemente da intellettuali vicini al regime. Nonostante alcune ricostruzioni proposte dal web, quindi, il camerata (un po’ atipico) Giovanni Giurati non inventò un bel niente, ma la rivista Gioventù Fascista e il Minculpop riproposero l’apoftegma sotto i vessilli del fascio littorio, alimentando così una serie di riletture degne dei peggiori romanzi fantascientifici e tese alla costruzione di un futuro distopico.
Tra le scemenze più grosse che ho letto, ricordo la tesi di un fascismo mazziniano o di un Mazzini “fascista ante litteram”. Qualche anno fa questa tesi incontrò i favori di alcuni improvvisati storici, capaci addirittura di affermare che Randolfo Pacciardi sarebbe stato, in cuor suo, un autentico fascista. Conobbi bene Pacciardi, che raccontava che la propria ostilità alle tesi marxiste lo aveva trasformato, suo malgrado, in un “uomo di destra”. Pacciardi, in realtà era un grande mazziniano che aveva combattuto rischiando la vita contro gli uomini in camicia nera. Bisogna essere (quanto meno) in mala fede per collocare questo spirito libero e democratico nella destra autoritaria: un Pacciardi che nel 1915, non ancora sedicenne, aveva aderito al Partito repubblicano; un Pacciardi che – assieme alla medaglia d’oro Raffaele Rossetti e a Gigino Battisti (figlio di Cesare) – fondò nel 1923 il movimento di combattenti antifascisti Italia Libera, diventandone segretario generale; un Pacciardi che organizzò, sempre nel 1923, una solenne contestazione al Duce in Piazza Venezia; un Pacciardi che rischiò la vita numerose volte per riportare la libertà in Italia, nell’affermazione del pensiero mazziniano, che teorizzava l’azione degli uomini svincolata da ogni interesse materialistico.
Ma torniamo al pensatore genovese. Nei Doveri dell’Uomo, Mazzini, rivolgendosi agli “operai italiani”, intende parlare “delle cose più sante che noi conosciamo, di Dio, dell’Umanità, della Patria, della Famiglia”. Concetti, questi, che sono alla base del credo mazziniano. Giuseppe Mazzini intendeva educare la comunità con quei valori che rappresentassero il “minimo comun denominatore” di una società avanzata, in grado di bilanciare i diritti con i doveri. Il Dio mazziniano è il padre di tutti gli uomini che devono essere in grado di comprendere che ognuno “deve vivere, non per sé, ma per gli altri”. Per il Profeta dell’unità nazionale, lo scopo della vita “non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori”. Quel Dio (che non si identifica in un credo specifico, ma è alla base del sentimento religioso della vita) spinge ogni uomo a combattere l’ingiustizia e l’errore a beneficio di ogni altro individuo, che viene riconosciuto “fratello”. In sintesi, quel concetto si accompagna a quello di Umanità, che pervade i più nobili propositi.
L’amor di Patria non va confuso con il nazionalismo, dato che la Patria è il luogo dei doveri (e dei diritti). E la Famiglia, “come la Patria, più assai che la Patria (…) è un elemento della vita”. Infatti, “la Patria sacra in oggi, sparirà forse un giorno quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell’umanità; la Famiglia durerà quanto l’uomo. Essa è la culla dell’umanità. Come ogni elemento della vita umana, essa deve essere aperta al Progresso, migliorare d’epoca in epoca le sue tendenze, le sue aspirazioni; ma nessuno potrà cancellarla”. Dov’è il germe del nazionalismo in queste parole? Dov’è l’esaltazione di schemi moralistici e retrogradi? Quella di Mazzini è una visione rispettosa dei princìpi provenienti dal diritto naturale, ma che – al contempo – pone al centro della vita l’uomo in una lettura evolutiva degli interessi di una società che si muove e progredisce. E proprio da queste riflessioni di quel pensatore che “giganteggia sui piccoli e anche sui grandi uomini della sua età” (come scriveva Pacciardi) si sono sviluppati i percorsi che hanno condotto all’affermazione di valori assoluti in Italia e all’estero. Per esempio, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, premesso il ruolo di ogni Paese aderente (art. 1), riconosce il diritto al rispetto alla vita privata e familiare (art. 8) e la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9), ponendo un corretto equilibrio tra i doveri e i diritti di tutti gli appartenenti al genere umano, a prescindere dalla cittadinanza degli stessi. E, ne sono certo, senza le parole di Mazzini il percorso di affermazione dei diritti fondamentali non si sarebbe sviluppato nel modo che conosciamo oggi. Come al solito, non si possono condannare le parole, ma l’uso sbagliato delle stesse in contesti inopportuni. Tutto il resto è propaganda (e, come tale, triste e miserabile).
Foto dal profilo Facebook di Monica Cirinnà